I libri di Patrizia Boi

venerdì 7 giugno 2013

Dimmi che destino avrò Intervista a Peter Marcias

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WSI
Venerdì, 7 Giugno 2013

REPORT - Italy, Cultura

Dimmi che destino avrò

Intervista al regista Peter Marcias.

Dimmi che destino avrò

In un mondo del cinema consacrato alla tecnologia e al 3D si incontrano ancora voci originali che si nutrono di poesia e di idee e cercano di trasmettere a un pubblico cannibalizzato dai nuovi mezzi del cinema, l’importanza dei silenzi, della lentezza e della semplicità.
Abbiamo intervistato un giovane regista di origine sarda, Peter Marcias (Oristano, 1977), autore di vari film tra cui I bambini della sua vita del 2011 e Dimmi che destino avrò, distribuito in questi mesi nei cinema italiani da Gianluca Arcopinto e la sua Pablo, con grandi apprezzamenti da parte di critica e pubblico. Ci ha accolto con solarità e simpatia nella sua calda dimora romana arredata con spirito e fantasia e ci ha stupito con la sua spontaneità.

PB: Salve Peter! Ho visto il film Dimmi che destino avrò con mia figlia di nove anni che ha detto: “Finalmente un film senza violenza e delicato”, è stato un intento della tua regia o dello sceneggiatore di trasmettere allo spettatore questo messaggio? 
PM: Guarda, è partito tutto dallo sceneggiatore, Gianni Loy, che mi ha detto: “Peter, ti vorrei presentare degli amici… Mi è venuta un’idea che è nelle tue corde”. Gianni è un uomo sensibile, è un professore, un giurista, un uomo pieno di talento e interessi. Mi ha condotto al campo Rom di Monserrato – una cittadina attaccata a Cagliari – e da quel momento ho fatto lo stesso percorso che ha fatto il commissario nel film, sono stato invitato nelle baracche a prendere un caffè e poi tutto il resto. Devo dire che la prima impressione è stata piacevole: tutti quegli ambienti colorati e pieni di oggetti, quelle stufe sempre accese, quel calore che permea le stanze, quel continuo caricare la legna… insomma quelle case di legno sembrava che mi accogliessero. Da questa sensazione è partita l’atmosfera del film, il gusto per la convivialità è stato suggerito proprio dall’ambiente. Poi i film si sviluppano per mesi e il resto avviene strada facendo. E sono stati importanti i consigli del produttore Gianluca Arcopinto.

PB: Qualcuno ti ha chiesto che senso ha questo film senza effetti speciali nel futuro del cinema, ma tu credi che il vero cinema abbia un futuro negli effetti speciali, nella tecnologia spinta, nel chiasso degli inseguimenti, nei continui spostamenti della scena per confondere e stupire lo spettatore, oppure credi che siano le idee a dover veicolare il messaggio del cinema?
PM: Non la penso così, anzi, mi piacerebbe fare un film di quel genere, io sono versatile e malleabile. Per questa storia era utile avvalersi dei silenzi, il percorso narrativo lo rendeva indispensabile. In Italia c’è tutto un sottobosco di registi che fa nascere questo genere di film, ma secondo me si possono fare degli ottimi film anche giovandosi della tecnologia. Certo, visto che oggi il cinema se la deve cavare con dei piccoli budget, alla fine siamo costretti a lavorare molto sulle idee, però non ti nascondo che mi piacerebbe girare un film utilizzando le possibilità che offre la tecnologia, a patto, però, che si tratti di una bella storia.

PB: Perché hai fatto un film sulla cultura Romanès? Ti piace aprirti alla diversità in generale oppure sei attratto dalla magia dei Rom? O semplicemente preferisci schierarti con i più deboli?
PM: Io non sono dalla parte di nessuno quando giro un film, piuttosto mi coinvolgono le storie, mi piace arricchirle con un mio sguardo personale. E stavolta è capitato con questa sceneggiatura di Gianni Loy, che è un profondo conoscitore della cultura Rom. Mi piace, senza dubbio, parlare di diversità. Se devo essere sincero, cerco di far scontrare le diversità perché credo che questo confronto generi una crescita. In questo film è la diversità del commissario, di Alina, del figlio del commissario, della città di Cagliari, insomma tutte le diversità che sbucano dalla macchina da presa. 

PB: Mi racconti un aneddoto sui campi nomadi?
PM: Ce ne sono diversi, ma mi viene in mente l’inizio. Dovevamo girare il film nel campo di Monserrato, ma due settimane prima di cominciare a girare, si è ammalato una personalità molto importante del campo. Lo avevo attentamente selezionato per interpretare il ruolo del padre di Alina, un ruolo importante! Mi hanno chiamato alle sette del mattino e mi hanno comunicato che Zahid era stato ricoverato e che era in coma. Ci sono stati attimi di forte apprensione, infatti il povero Zahid poi è morto. Io sono anche andato al suo funerale, l’ho vissuto con tutti loro. La questione più drammatica è che in un campo Rom quando muore una personalità importante si devono osservare 40 giorni di lutto… e non si può fare nulla, non si può accendere la televisione, non si può festeggiare e di certo non si può girare un film… Ma io dovevo iniziare le riprese, non potevo aspettare… i tempi, il budget… Insomma, alla fine ho cambiato campo, sono andato a girare al campo nomadi di Dolianova/Selargius utilizzando anche le persone già scelte a Monserrato. Ho mischiato le persone dei due campi ed è stato bello, ho potuto conoscere gente diversa, alla fine è stata una vera opportunità.

PB: Hai lavorato con due attori professionisti come Luli Bitri e Salvatore Cantalupo, ma la maggior parte dei protagonisti di questo film sono veri Rom e Sinti, giusto? Come è stato lavorare con loro? Che emozioni ti hanno trasmesso? Cosa ti hanno insegnato? 
PM: È stato molto complesso fare i provini. La mia selezione è stata attenta e precisa. Grazie alla Fondazione “Anna Ruggiu” c’è stata una collaborazione con un regolare rapporto di lavoro, sono stati assunti in tutti i ruoli, attori, ma anche come aiuti alla scenografia, all’organizzazione, al catering e questo ha facilitato il nostro rapporto. Loro poi sono stati un’occasione perché mi hanno ricordato cosa manca oggi a noi italiani che viviamo in queste grandi città, in una dimensione spersonalizzante. Anche loro, per la verità, sono italiani, ormai vivono nel campo da quasi quarant’anni, ma hanno un modo di vivere che ricorda i piccoli paesi della Sardegna, dove si sta tutti insieme. I Rom vivono molto le relazioni, ci sono continue discussioni, dibattiti, discorsi anche molto accesi, mentre noi a Roma, oggi, non sappiamo nemmeno chi abita alla porta accanto… sia a Roma, ma anche a Cagliari, viviamo una situazione di solitudine e di disinteresse nei confronti dell’altro. Nella loro comunità c’è invece molta attenzione all’altro, ad antichi valori che noi abbiamo perduto. Loro mi hanno insegnato, quindi, l’importanza dei rapporti umani.

PB: E come vi siete preparati con la Bitri per farle entrare dentro il mondo Rom, per essere una di loro? Il risultato è stupefacente, è veramente a suo agio nel ruolo di Alina?
PM: Luli è una grande professionista, si è formata all’Accademia di Tirana. Lei interpreta un ruolo dopo essersi preparata, è molto recettiva nel profondo, tende a disinteressarsi, invece, delle cose futili. La preparazione più importante è avvenuta sul campo. Lei si è veramente messa in discussione buttandosi in quel tipo di vita per comprenderla e per poter diventare una di loro. Si è immersa in quella cultura e l’ha fatta sua. Non è stato facile, ma il risultato è stato ottimo grazie alla sua professionalità ma anche grazie alla sua volontà di mettersi in gioco, in ascolto degli altri e della sua voglia di imparare. Una delle cose che l’ha affascinata è stato il modo di vivere non strutturato e con poche certezza, una qualità che, per come si sta evolvendo la società, dovremmo conoscere meglio tutti noi che non ne abbiamo esperienza.

PB: Parlami dell’ambientazione del film: perché la scelta di una città come Cagliari, avevi bisogno di contrapporre il mare, la spiaggia, al disordine delle baracche dei campi Rom? Oppure il senso di infinito dell’orizzonte marino ti serve per allargare i confini con cui siamo abituati a confrontarci?
PM: Non vorrei fare un discorso troppo spicciolo, ma Cagliari è la mia città e ha sempre un posto nel mio cuore. Quando tu hai un’idea ti viene sempre più facile svilupparla, pensarla dietro casa. Nelle storie, occorre raccontare ciò che si conosce, anche se i grandi riescono a raccontare bene anche ciò di cui non hanno diretta esperienza. Poi Cagliari, la Sardegna, si prestano bene, mi piaceva narrare la dimensione dell’isola, l’accoglienza dei nomadi che vivono nel loro isolamento strutturato da secoli. E poi volevo tornare a girare a Cagliari per raccontare una versione diversa rispetto a quella che emerge dall’altro film I bambini della sua vita… Era anche un mio bisogno…

PB: In questo film non hai lavorato con scenografi professionisti, eppure le scene interne alle baracche zingare sono molto calde, c’è in qualche modo una certa poesia negli accostamenti degli oggetti, come hai ottenuto questo effetto? È merito delle inquadrature?
PM: Il merito è stato di lasciare tutto com’era. Le comunità Rom hanno dinamiche di spostamento e di organizzazione che sono molto poetiche soprattutto sul nascere della giornata. Ti faccio un esempio: loro si alzano la mattina e non pensano minimamente di farsi una doccia, di pettinarsi – non sono perfettini come noi e non lo dico con un’ombra di giudizio – loro stanno con i capelli arruffati, con i vestiti sgualciti, hanno una sorta di non precisione che genera un disordine metodico. Anche coloro che non sono allineati hanno un loro poetico ordine e questo traspare anche nel disordine che regna nel campo e che lo rende molto suggestivo. Puoi trovare il pentolino sul letto, la pastina sul divano e tutto questo è assolutamente naturale e spontaneo. Io sono stato molto attento a questo dettagli, ho cercato di coglierli. Le scenografie le hanno generate artisticamente loro stessi, io le ho fissate rispettosamente sulla pellicola.

PS: Quando hai girato il film I bambini della mia vita hai lavorato con scenografi professionisti come Ewa e Osvaldo Desideri, abituati ai più grandi registi del cinema, come ti sei trovato? Quale è stato il loro valore aggiunto alla tua regia?
PM: Con loro mi sono trovato molto bene. Hanno un modo di lavorare – lo dico senza giudizio ma piuttosto con ammirazione – molto accademico, hanno una notevole percezione delle cose strutturate con senso. Un tempo i set dei grandi registi erano studiati in ogni dettaglio, anche con un’accurata ricostruzione storica, ma i budget dei film erano diversi. La mia scommessa è stata mettere dei mostri sacri della scenografia in un film d’autore con piccoli capitali – questo film non ha superato il milione di euro –, è stata veramente una sfida. Osvaldo ha vinto l’Oscar per L’ultimo Imperatore di Bertolucci, è uno che sa il fatto suo, ha trovato delle soluzioni che hanno consentito di allineare la sceneggiatura. Lui ed Ewa hanno avuto una fantastica idea: aprire la Manifattura Tabacchi per girare le scene al suo interno. Sono riusciti a vedere il potenziale di quel luogo, costruendoci un piccolo set, una piccola Cinecittà sarda. Sono stati molto bravi a reinventarsi la città, a strutturare tutta la situazione in maniera molto più oggettiva di come avrei fatto io e hanno dato un’immagine poetica della mia città vedendo delle cose, delle realtà, degli scorci, che io non avrei visto… forse l’avrei infarcita della mia soggettività da sardo.

PB: È vero che si parla anche di bambini, ma il tema di questo film si presta poco alla visione di un pubblico troppo giovane, allora perché la scelta della formula cartone? Per alleggerire le scene più drammatiche?
PM: Hai ragione, mi piaceva alleggerire la situazione di disagio familiare in cui era costretta a vivere la bambina, volevo che la visione della bambina fosse alleviata dai colori. I cartoni animati hanno il potere di attenuare il disagio infantile.

PB: Una sorta di visione poetica permea ogni scena dei tuoi film, anche quando i temi sono tutt’altro che lievi; è un distintivo della tua sensibilità o la poesia è una scelta di fondo che caratterizza il tuo lavoro?
PM: Non si tratta di una scelta, faccio quello che è connaturato alla mia personalità. Sono il meno adatto a parlare del mio stile, seguo l’istinto nel mio lavoro, mi fido molto dell’istinto. A volte si possono prendere veri e propri abbagli, ma se divento un calcolatore non sono a mio agio, anche se il calcolo a volte può essere il segreto del successo.

PB: C’è un difficile lavoro di ricostruzione del passato attraverso i flashback in questo film, un intento delle sceneggiatore?
PM: Assolutamente sì, il giovane scrittore e sceneggiatore Marco Porru (che è in libreria con un romanzo fantastico e pluri-apprezzato dalla stampa nazionale L’eredità dei corpi edito da Nutrimenti) ha impostato la sceneggiatura così, una sorta di incastro a scatole cinesi. Mi è piaciuto questo suo modo di raccontare, la sua originalità, questa scelta di non linearità a cui si è affidato.

PB: Le tematiche omosessuali sono presenti in molti dei tuoi lavori, quale messaggio intendi trasmettere in merito a questa diversità? C’è qualche grande regista del cinema internazionale a cui ti ispiri?
PM: Mi piace sempre inserire queste note sull’omosessualità perché arricchiscono le mie storie. Esplorare la voglia di paternità di un gay e, nello stesso tempo, il disagio di uno come lui, anche riguardo al giudizio che ne dà la Chiesa nel film I bambini della sua vita è stato molto importante anche per me. InDimmi che destino avrò, il personaggio è secondario, cerco però di mettere in risalto che anche se il commissario in qualche modo accetta l’omosessualità di suo figlio, gli manca l’apertura per accettare e confrontarsi sulla diversità culturale dei Rom, almeno inizialmente.

PB: Mi racconti come mai hai scelto la strada del cinema? Qualcuno della famiglia o degli amici ti ha influenzato o è una passione tua personale?
PM: Mio padre è un commerciante, mia madre è sempre al suo fianco, non ho esempi familiari nel mondo del cinema. È una mia passione, nata fin da piccolo, fin dai tempi in cui frequentavo la cineteca sarda a Cagliari. È stata una scelta di vita, quella di dedicarmi interamente a questo lavoro. Lo faccio con infinita passione, non parlo solo di cinema, ma di documentari, spot pubblicitari e tanto altro.

PB: Su quale film stai lavorando in questo momento? Ho saputo che a Cannes diversi produttori sono interessati al tuo lavoro, hai delle novità in merito?
PM: Dimmi che destino avrò ha partecipato al Marchè di Cannes 2013 grazie a Cosimo Santoro e la sua The Open Reel. Il film ha interessato molti distributori esteri e soprattutto festival. In Italia il film è distribuito dalla Pablo di Arcopinto (è uscito al cinema lo scorso 29 novembre, dopo la presentazione ufficiale al Torino International Film Festival) e ha fatto un ottimo lavoro di divulgazione, se si pensa che quasi 35mila persone tra sala e web (l’uscita natalizia con Repubblica.it) hanno visto l’opera. Ora sto lavorando a un documentario sulla grande attrice Piera degli Esposti, poi ho un’infinità di altri progetti, però per scaramanzia preferisco non parlarne. Nel mondo del cinema non c’è mai nulla di certo, il motore di tutto sono i contributi legati ai produttori e non so ancora quale o quali di questi progetti andranno effettivamente a buon fine.

PB: Cosa ti aspetti dal futuro e che cosa desideri più di ogni altra cosa nel tuo lavoro e - perché no - anche nella vita?
PM: Mi aspetto di riuscire ancora a lavorare in questo settore. Sono tempi difficili, in cui c’è un passaggio epocale importante. Le nuove tecnologie rendono ogni cosa semplice e a portata di mano compresi i film da scaricare con facilità dal web. C’è difficoltà a distribuire i film, molta difficoltà ad avere visibilità, inoltre, oltre agli scompensi creati dai facili prodotti gratuiti, l’offerta è veramente tanta e occorre farsi largo tra la folla dei film. Mi auguro che prima o poi ci sia una compensazione tra il fare e il far vedere l’opera, me lo auguro per me e per tutti i professionisti seri che fanno il mio stesso lavoro.

PB: Sei emigrato dalla tua isola: necessità o volontà? Hai qualche nostalgia o rimpianto?
PM: Fin da piccolo ho sempre amato viaggiare e ora devo dire che è molto facile andare e tornare. Io amo girare l’Italia e anche il mondo quando mi sposto per i vari festival. Mi piace questo movimento e con il lavoro da regista, che è lontano dai vincoli impiegatizi, ho la libertà di volare.
PB: Se a 35 anni hai già lavorato con nomi come Piera degli Esposti, Paolo Bonacelli, Nino Frassica, con gli scenografi Desideri, Marco Onorato e tanti altri, cosa farai da grande? Posso definirti una delle giovani promesse del cinema italiano o la crisi ha talmente investito il nostro Paese che sarai ancora costretto a emigrare oltre il Bel Paese?

PM: Ti ringrazio, ma io nutro diffidenza quando si dice che sono giovane. Negli altri paesi a 25-30 anni si è già diventati dei professionisti, mentre qui sembra che cominci ora ad affacciarti nel mondo del cinema. Io sono uno che si muove molto, perché ho scelto di fare solo questo lavoro, faccio tanto e trovo stimolante conoscere sempre gente nuova. Mi piacerebbe immensamente anche andare a girare all’estero, sono assolutamente aperto, non ho limiti e non sento che andare oltre l’Italia sia una costrizione. Sono un cittadino del mondo, non capisco, piuttosto, quelli che stanno fermi. In un certo senso li ammiro, io mi sentirei prigioniero. Voglio vivere intensamente e fare tutti i viaggi che mi sarà possibile fare in questo meraviglioso e misterioso viaggio che ci offre la vita. 

Ringraziamo il simpatico Peter per la sua disponibilità e speriamo che questa sua apertura verso il mondo lo conduca a Itaca solo dopo aver esplorato tante altre interessanti isole…
Pubblicato: Venerdì, 7 Giugno 2013
Autore: Patrizia Boi

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martedì 4 giugno 2013

Il Poeta e intellettuale abruzzese Igino Creati ci ha lasciati

Lo avevo conosciuto al Premio di Camaiore nel 2007, ci aveva presentato la poetessa Lucarini e ci eravamo scambiati i nostri libri, poi lui aveva vinto il Premio. Igino Creati, il professore di Penne, aveva reso famosa la città di Penne portandola ad avere per un trentennio interessanti scambi culturali con i maggiori intellettuali italiani e con il mondo culturale russo, rumeno, greco. Lui è stato il Fondatore del "Premio Internazionale di Narrativa e Poesia Città di Penne" e il suo instancabile organizzatore fino al giorno della sua morte, avvenuta il 28 maggio a Pescara.  
 
Igino Creati era nato ad Arsita, un paesino ai piedi del Gran Sasso in Provincia di Teramo, ed ha vissuto a Pescara insegnando lettere classiche e collaborando come giornalista nelle televisioni private e con giornali e riviste acui ha fornito il suo contributo critico in campo letterario. La sua passione era l'organizzazione di manifestazioni culturali, infatti, oltre al Premio Penne, che ha anche esportato a Mosca nel 1995, ha ideato il Premio Arsita e ha fondato l'A.S.P.A. (Associazione dei Poeti Abruzzesi). Ha vinto vari premi di poesia e critica letteraria tra i quali il "Citta' di Pisa", il "Ceppo - Nuove Proposte", il "Chiaravalle" e il "Sant'Egidio". 
Tra le sue opere ricordiamo: Gocce d'alba (1971), Dissidio (1973), La collina di luce (1975), L'onesta solitudine (1981), Via Donatello 23 (1986), Quarto piano (1995), Un tunnel lungo il cuore (2005), I cieli di San Pietroburgo - dal 1986 tutti editi con le Edizioni Tracce.
 
Per me fondamentalmente Igino era un amico, mi ha fatto conoscere il mondo culturale russo dove aveva importanti contatti con il governo e con il suo Ministro della cultura e soprattutto sua moglie Tamara. Spesso lo andavo a trovare a Pescara, lui mi veniva a prendere e dopo mi accoglieva anche grazie all'ospitalità di sua moglie Tamara.
Preferisco ricordarlo con queste immagini legate alle sue passioni letterarie e soprattutto con alcune poesie dedicate a Tamara e alle sue due figlie, Ilaria e Natalia
 
 
Da “I cieli di San Pietroburgo” di Igino Creati
 
Anche senza darti un bacio
Se oggi passasse al mio fianco
un po’ di questa tua dolcezza
sarei all’improvviso più vicino – o più a fondo –
nel sorriso della vita.
 
lo sa la mia età
che mentre muti
intanto ti conosco a poco a poco
anche senza darti un bacio.
 
Non mi resta, cara,
che amare l’attesa
che ci scalda
cercare – se esiste – un’entrata
-magari d’emergenza –
nel tuo cuore.
 
La tua grazia
Appena uscito dal tumulto delle strade
voglio offrire una rosa a tua figlia.
 
So che tu sarai sola anche stasera
e lei ti attende altrove
magari si chiede al mattino
dove e se finisce
il viaggio di sua madre
e resta un po’ inquieta o ferma
dentro l’innocenza.
 
Io aspetto che negli occhi
si compia e si riposi
ogni sentimento
che un gesto o una parola s’avvicini.
 
Non importa – sai – se a ottobre o a novembre
arriverà un tuffo al sangue
la dolce sorpresa dell’esistere
con un po’ di noi.
 
Davanti a una tazza di caffè
mi domando ora
se per caso tu riascolterai la mia voce
e se io ripeterò almeno una volta
il profilo del tuo viso
se crescerà in te l’abitudine al silenzio
o accanto a me
camminerà senza sosta
la tua grazia.
 
I cieli di San Pietroburgo
Tu dalla tua lontananza
io dalla mia
difendiamo ognuno la propria verità.
 
Quando un nuovo giorno
è appena cominciato
chiamo per ogni stanza il tuo nome
e accendo a sera tutte le luci
sperando di vederti.
 
Ricordo ora la tua mano al ritorno
la stessa dell’andata
con diversa velocità
d’amore o di stanchezza – mi chiedo? –
 
Attendo un nuovo cenno
il profumo di te
che sai di terre russe.
 
Sento acuto il dolore
e osservo di profilo
te che guardi lo smalto sulle unghie
o allo specchio
il labbro tingi di rossetto.
 
Intanto rigenero il futuro
e mi chiedo – ti chiedo –
se avrai presto un altro sorriso
o solo tristezze
magari un’ombra
un salto che ti avvicini.
 
Ricorda, Tamara,
viverti è il solo grande gioco che mi piace
e non voglio perderti.
 
Pensami ancora
sotto i cieli di San Pietroburgo
di noi due solo tu sei
un punto certo di memoria
tra le strade affollate di turisti
tra i baci e gli abbracci dei ragazzi
pure dentro improvvisi silenzi.
 
Anche questo accade a fine giugno
nel percorso di una lacrima
che riassume l’esistenza.
 
E tu hai la mano tesa verso un fiore.
 
 
Sei giunta da lontano
Sei giunta da lontano, Ilaria,              A mia figlia Ilaria nel giorno del suo battesimo
da un’isola di quiete
a noi da sempre sconosciuta.
 
Dacci a poco a poco
l’antico sorriso senza inganni
il brulichio del cuore
la via che ci manca.
 
Oltrepassato il flusso dei ricordi
dietro ai sogni
dentro ogni verità
spiri aria nuova
e luce a fare cielo.
 
E oggi che più largo abbraccio
e lungo
riscalda la tua fragilità
mentre accarezzi con la mano
l’ultima foglia
che si stacca da dicembre
insegnaci senza abbagli
in ogni approdo
e prima e dopo
il senso giusto delle cose
la loro serena lucentezza.
 
 
 
 
 

Il coro di voci bianche Parpignol

WSI
Martedì, 4 Giugno 2013

REPORT - Italy, Musica

Il Coro delle voci bianche Parpignol

Il metodo del Maestro Tanaquilla Leonardis.

Il Coro delle voci bianche Parpignol

Sono convinta si possa dare il meglio solo quando una forza interiore ci guida verso la verità di quanto stiamo compiendo. E sono certa che nel campo artistico questo cieco abbandono all’emozione generi performance a cui val la pena d’assistere. Di certo è questa la spinta che muove il Maestro Tanaquilla Leonardis quando dirige il Coro dei suoi piccoli, intermedi e grandi. Durante un concerto è come un’onda che danza sul profilo piatto dell’oceano per riportare a galla il sommerso. Ogni cellula del corpo, ogni gesto, sguardo, movimento sono volti a ottenere il massimo dalle voci che danno vita a un melodioso canto. Il maestro in quel momento si unisce alle voci, al suono, alle sinfonie che ha progettato, provato e riprovato. E non potrebbe essere altrimenti visto che la sua voce è stata scelta per il doppiaggio dei canti italiani de La Sirenetta (Den lille Havfrue), la fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen. È un voce che esce dal mare quella di Tanaquilla, un suono raro, pieno di armonia e dolcezza. La Leonardis trasmette empaticamente le sue conoscenze ai piccoli riescendo a farli cantare in latino, francese, inglese, tedesco e perfino in giapponese. Può capitare che anche dopo una sola prova i coristi imparino miracolosamente il pezzo, con i toni, le pause, i tempi e le parole giusti: è sconvolgente se si pensa che magari a scuola non riescono a insegnar loro una poesia in un’altra lingua nemmeno dopo dura fatica… Sarà per via del metodo usato? 

La Leonardis è diplomata in pianoforte e canto lirico, ma ha approfondito i suoi studi frequentando corsi di aggiornamento sulla metodologia de L'Orff-Schulwerk messa a punto da Carl Orff, che ha particolare riguardo per il fattore ritmico nella sua totalità: la sua importanza è nel movimento, nella voce e nella musica strumentale e ricerca l'elementarità e la metodologia pratica. Musica elementare è musica a misura di bambino, comprensibile e accessibile attraverso l'utilizzo della scala pentatonica (ad esempio Do Re Mi Sol La). Come diceva Orff: "la musica per bambini nasce lavorando con i bambini e lo Schulwerk vuole essere stimolo per un proseguimento creativo autonomo; infatti esso non è definitivo, ma in continua evoluzione". 
Tanaquilla ha applicato anche questo metodo nel passato, attualmente ha messo a punto invece una tecnica tutta sua incentrata sulla voce nel bambino. Lei applica la tecnica corale lirica degli adulti modulandola sulla voce dei piccoli e si appoggia alla tecnica dei vocalizzi (per lo sviluppo della risonanza dell’articolazione, dell’estensione vocale e dell’uguaglianza del registro, vocalizzi a più parti per la ricerca della fusione timbrica) di Pablo Colino, religioso, musicista e scrittore spagnolo, Canonico e Maestro di Cappella emerito della Basilica di San Pietro in Vaticano.

I vocalizzi come riscaldamento e l’applicazione della lirica ai bambini sono solo una parte dell’abilità di Tanaquilla, ma la sostanza del suo lavoro è dettata dalla passione, dalla luce negli occhi che la illumina quando scopre un nuovo talento, dall’attenzione a ogni particolare di un concerto, compresi i regali a ciascun bambino al termine della perfomance. Lei pensa sempre a ogni dettaglio e alla fine dell’esibizione sono tutti contenti, il pubblico, i coristi e soprattutto lei stessa che ha assorbito l’energia degli applausi calorosi che sempre la accompagnano. 

Il Coro Parpignol è un’idea che nasce dopo un percorso iniziato come insegnante a partire dal 1985. Nei primi anni il maestro ha applicato le metodologie dell’Orff Schulwerk in scuole elementari e superiori pubbliche e private e ha proseguito il suo percorso didattico specializzandosi nella tecnica vocale applicata ai bambini, insegnando per diversi anni all’Accademia Romana di Musica e nel coro Matite Colorate della Basilica di S. Croce a Gerusalemme. Da questa esperienza Tanaquilla ha costituito con sei giovani elementi il gruppo La banda dei Cherubini con cui ha svolto un’intensa attività concertistica. 

Dal 2006 Tanaquilla ha amalgamato i coristi dei cherubini delle varie scuole con altri nuovi talenti, e ha creato la sua scuola di canto e coro per bambini - Coro di Voci Bianche Parpignol - presso il teatro di Nostra Signora di Lourdes nel quartiere di Tormarancia a Roma. Si dedica anima e corpo a questi bambini, con attenzione e rigore, fornendo loro gli strumenti educativi per formarli anche nella vita ad affrontare le prove a cui si viene continuamente sottoposti. Attualmente sta preparando il coristi alla partecipazione al Concorso Corale Internazionale che si terrà a ottobre a Riva del Garda in Trentino. Il Primo Premio è arduo da conquistare, ma bisogna sempre credere nel Potere dei Sogni.
Pubblicato: Mercoledì, 22 Maggio 2013
Autore: Patrizia Boi

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