I libri di Patrizia Boi

venerdì 10 gennaio 2014

I volti incantati di Sergio: razze nel mondo

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/photogallery/sergio-pessolano_20140110125412.html#.UtB3Q_TuI_Y

WSI
Venerdì, 10 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Photogallery

Sergio Pessolano

Il fotografo viaggiatore

Sergio Pessolano

Sergio Pessolano è nato a Roma nel 1956 ed inizia a interessarsi di fotografia già all'età di quattordici anni, quando per imparare a ritrarre la gente, si recava quasi ogni settimana in Piazza San Pietro, sempre affollatissima per il saluto domenicale del Papa. A metà degli anni settanta, la grande passione per il reportage e il fotogiornalismo lo porta inevitabilmente a documentare le manifestazioni di protesta, spesso assai cruente, che si svolgevano in quel tormentato periodo.

Nascono così delle immagini che sono oggi il documento prezioso di un importante libro edito da Il Fotogramma, Quelli del '77 (Roma, 1999), con l'introduzione di Wladimiro Settimelli e presentato nell'omonima mostra. Oggi, Sergio Pessolano ha raggiunto una straordinaria capacità tecnica ed espressiva ed una sintesi perfetta tra istinto e coscienza: è un fotografo-viaggiatore che, spinto da una vera e propria "sete fotografica", va letteralmente a caccia di immagini, in tutto il mondo, alla ricerca di uno sguardo, di un volto, a volte solo di un gesto. Le sue sono immagini-icone che hanno come punto di congiunzione l'Uomo.

L'obiettivo non è mai oltre la realtà, non ne deforma i tratti. Pessolano non sottolinea, non si lascia abbagliare dall'evento o dall'effetto, né cerca la "bella forma" o lo stereotipo. E' sempre imprevedibile, spesso sorprendente, proprio perché utilizza l'obiettivo come una proiezione del suo "vedere" e la pellicola come un taccuino: è così che gli scaffali del suo studio sono ormai diventati una vera e propria miniera di umanità.

Alcune di queste immagini "vivono" in due edizioni della Camera Verde di Roma, Obiettivo India (Roma, 2000), un libriccino entusiasmante introdotto da Teresa Bianchi, e Frammenti di un mondo (Roma, 2001), con un testo di Francesca Vitale. Libri che rappresentano la testimonianza oggettiva del lavoro che da molti anni Sergio Pessolano sta compiendo. E’ specializzato in fotografia etnografica e fotogiornalismo di approfondimento. Ha effettuato molti viaggi e spedizioni, soprattutto in Africa per documentare usi e costumi di popolazioni spesso poco conosciute ed isolate. Attualmente, pur continuando a viaggiare e a produrre materiale sempre più raffinato e coinvolgente, collabora, spesso scrivendo anche i testi, con le riviste del settore e organizza mostre e proiezioni. E’ membro dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual e fa parte della giuria di diverse fotocomunità internazionali. Ha collaborato con il National Geographic Traveler Magazine.

Sergio Pessolano ha ottenuto la Menzione d’Onore (Honorable Mention) 2006 per il fotogiornalismo dall’International Color Award e un posto nel catalogo 2006 del prestigioso Trierenberg Super Circuit e nel catalogo 2006 dell’Al-Thani Award. Ha vinto il primo premio nella sezione Landscape dell’edizione 2007 del Trierenberg Super Circuit – Special Themes. Il rapporto annuale 2004-2005 del TAHIRIH Justice Center, un’importante organizzazione mondiale per la difesa dei diritti delle donne e delle bambine di tutto il mondo, appena uscito, è stato interamente realizzato con le sue immagini. E’ presente nel calendario 2007 dell’UNICEF.

Testo di Giovanni Andrea Semerano, Direttore del Centro Culturale La Camera Verde.

Per maggiori informazioni:
Travel Photography
www.sergiopessolano.it
Pubblicato: Venerdì, 10 Gennaio 2014
Articolo di: WSI Administration

Sergio PessolanoSergio PessolanoSergio Pessolano
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mercoledì 8 gennaio 2014

La befana; l'antenata che ritorna di Erika Maderna


WSI
Giovedì, 9 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Cultura

La Befana, l'antenata che ritorna

Viaggio attraverso i secoli a cavallo di una scopa

La Befana, l'antenata che ritorna

Non c’è bambino che non attenda con trepidazione il suo arrivo e l’aspettativa degli ultimi doni delle feste. Questa nonnina arzilla e misteriosa è entrata nella famigliarità dei nostri ricordi infantili e delle nostre tradizioni più vive: si è fatta spazio tra i simboli natalizi della cristianità, quasi appartenesse al racconto antico della natività, al presepe dei pastori, degli animali agresti, dei Magi. Ma è davvero così? O non abbiamo forse sempre saputo, fingendo di non sapere, che la Befana appartiene a un universo mitico di tutt’altra provenienza, vetusto e arcaico come le rughe del suo volto di megera? Potrà stupirci, o forse no, scoprire che la sua storia risale alle origini di quella dell’uomo.
Le tradizioni raccolte intorno al solstizio d’inverno e al periodo conclusivo dell’anno solare hanno avuto un’evoluzione articolatissima, formatasi su stratificazioni, rielaborazioni, innesti che risalgono alle forme di una religiosità primitiva. Districarsi in questa complicata sovrapposizione di rituali e mitologie è un lavoro illuminante che ci dà la misura di quanta consapevolezza delle nostre vere radici culturali si sia persa nel trascorrere dei secoli. Almeno nella percezione superficiale dei simboli.
La figura della Befana risale alle tradizioni agrarie pagane del periodo solstiziale, quando l’anno vecchio si preparava alla morte apparente della natura in attesa di rinascere nella nuova stagione vegetativa. Non è ardito pensare che, nell’ottica della celebrazione della morte e della rinascita, la sua presenza negli usi di questo periodo dell’anno ne faccia una raffigurazione dell’archetipo della Madre Terra nel suo aspetto di vecchia, laddove in primavera si manifesta come tenera fanciulla, e poi madre feconda. Nelle credenze pagane, dopo l’evento solstiziale, per dodici notti demoni femminili volavano sopra i campi da poco seminati per propiziare il futuro raccolto. Per i Greci era la dea Hera a svolgere questo compito, elargendo promesse di fertilità, per i Romani Diana, divinità lunare. E proprio quei doni, semi che contengono in nuce la nuova vita generativa, non sono forse i dolcetti che ancora oggi la Befana lascia nelle calze dei bambini buoni? Anche il carbone, indesiderato e temuto da chi ha la coscienza un po’ sporca, nasconde in realtà il significato profondo di custode latente del fuoco, e nel passato aveva valenza magica di talismano.
L’aspetto di donatrice, dunque, è forse il tratto più caratterizzante di questa figura, che da tempo immemorabile è presente nel folklore di aree vastissime del mondo, presiedendo gli antichi riti di fertilità. Ma la Befana è soprattutto un’antenata mitica, un personaggio totemico femminile che ha preso vita in epoca remota e, con specifiche caratteristiche, si è riproposto nelle strutture religiose successive, forse perdendo, in ogni passaggio, un po’ della sua forza e della sacralità primitiva, ma mantenendo salda la propria identità intorno a simboli ricorrenti che non si sono dissolti nei secoli. Vediamo quali.
Il legame con il fuoco e con il focolare domestico. E’ questo un tratto fondamentale del culto degli antenati, e tipico del mondo femminile. Nelle culture antiche è la donna a governare il fuoco della casa, e le divinità protettrici del focolare sono sempre femminili. Nella dimensione della fiaba questi antichi numi tutelari si sono sedimentati nelle vesti di personaggi quali la Baba Yaga del folklore russo, la strega che dorme accanto alla stufa, spazza la fuliggine con la scopa e si affaccenda con attizzatoio e pentolone. Una figura ambivalente, spaventosa e oscura, che nello svolgersi della narrazione si rivela tuttavia protettrice e portatrice di doni spirituali.
La scopa e l’asino. La scopa è forse, fra i mezzi di riconoscimento della Befana, quello più vivo nell’immaginario moderno. E‘ lo strumento che consente il volo magico, e con esso l’elargizione dei doni, ed è retaggio delle antiche religioni arboree che veneravano le piante per le virtù magiche e curative. La scopa è infatti in origine il ramo sacro, fatato, pregno di spirito vegetativo. Nella tradizione recente ha assunto il ruolo di portafortuna, scacciaguai, ma inizialmente la sua funzione apotropaica era quella di mettere in fuga gli spiriti maligni e le anime turbate dei morti. Il significato della scopa ci permette di esplorare una dimensione fondamentale della Befana: quella di mediatrice tra il mondo dei vivi e l’aldilà, già in parte svelata dal volo, proprio delle divinità infere, e approfondita dalla presenza dell’asino in alcune manifestazioni del suo folklore. 

Questo animale effettivamente è presente in un vasto repertorio mitico del periodo natalizio, e la sua collocazione nel presepe non è certamente la più recente delle sue apparizioni. La sua funzione è spesso quella di accompagnare colei che porta doni. Così avviene nelle celebrazioni di Santa Lucia, che carica i balocchi sul dorso di un asinello per il quale, in Catalogna ma anche in alcune città italiane in cui la venerazione della santa è particolarmente viva, si usa lasciare un po’ di fieno fuori dalla porta o accanto al camino. Lo stesso avviene in Francia, dove un personaggio assimilabile alla nostra Befana, la vecchietta chiamata Tante Harie, si preannuncia grazie al tintinnio del sonaglio dell’asinello che la accompagna. Ritroviamo qualcosa di simile nei riti stessi della Befana, che qualche volta in Sicilia è affiancata in processione da questo animale, così come nelle befanate toscane, quei cortei musicali itineranti che si snodano per le strade dei villaggi per sollecitare l’elargizione di vino e strenne.
Ancora una volta (ma ormai lo immaginiamo), è improprio fermarsi alle apparenze. L’asino ha una lunga storia di animale ctonio e accompagnatore dei morti: veniva utilizzato per trasportare il defunto nel luogo di sepoltura e, per analogia, si credeva che riportasse nel mondo dei vivi gli antenati durante le festività ad essi dedicate, circostanze in cui tornavano nei luoghi della vita terrena per portare doni a famigliari e discendenti. Riaffiora la simbologia del dono legata alla comunicazione tra le sfere della vita e della morte. Non stupisce come questo animale, peraltro importantissimo, insieme al bue, per la vita agricola dei popoli antichi, sia stato riassorbito dalla mitologia cristiana primitiva, per permanere nel folklore del Natale fino ai giorni nostri. Nel caso della Befana, non è escluso che l’associazione con l’asino rievochi un tempo dimenticato in cui l’antenata, nelle vesti di dea della natura, assumeva aspetto zoomorfo, tipico dell’essenza trasformativa della Madre Terra. La mitologia greca ha assorbito il ricordo di queste identificazioni arcaiche attraverso le figure dei demoni femminili inferi, tra i quali Empusa, deformazione dell’antica antenata zoomorfa, che si manifestava talora sotto le spoglie di asino o di bue. L’aspetto asinino o aviforme era caratteristico delle grandi dee mediterranee, che usavano inglobare in una sorta di simbiosi l’animale sacro o totemico nella propria epifania. Lo stesso avveniva per il bovino, legato alla dimensione matriarcale, che ritroviamo nei tratti di numerose divinità (Hator, Iside, Hera, Io).
L’analisi di tutti i simboli confluiti nella figura della Befana ci parla di un personaggio costruito su una ricchissima e ininterrotta stratificazione. Sui caratteri arcaici di antica dea delle foreste e del mondo animale, di antenata ancestrale, dominatrice dell’elemento fuoco, padrona di poteri metamorfici, si sono innestate le strutture di immaginari meno primitivi e addomesticati dalla mente razionale: il focolare è divenuto il suo regno, la casa e le attività femminili il suo patrimonio spirituale. Ha in sé i tratti ambivalenti delle antiche divinità infere. E’ un po’ Persefone, un po’ Lamia, un po’ Ecate: figure terrificanti e benevole allo stesso tempo, perché padrone della duplice natura dell’esistenza. E tuttavia i valori di cui è portatrice non sono tramontati: riconosciamo in lei le radici di un’umanità di cui siamo ancora assetati: e poco importa se i doni che elargisce sono oggi assorbiti dalle logiche di un consumismo che annulla la profondità dei millenni. Accogliamo con gratitudine i semi magici disposti nella calza e ci auguriamo che il raccolto sia propizio.

Leggi anche: La signora sulla scopa 
Pubblicato: Lunedì, 6 Gennaio 2014
Articolo di:  Erika Maderna

La Befana, l'antenata che ritornaLa Befana, l'antenata che ritornaLa Befana, l'antenata che ritorna
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Il femminino creativo di Teresa P R O T T O

WSI
Giovedì, 9 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Cultura

La donna scheletro e l'archetipo della donna selvaggia

Il femminino creativo

La donna scheletro e l'archetipo della donna selvaggia

Qualche settimana fa, Patrizia Boi ha scritto una meravigliosa fiaba, La donna scheletro, prendendo spunto dalla raccolta Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès. L’autrice del libro, laureata in psicologia etno-clinica e specializzata in psicologia analitica, da sempre è impegnata nel sociale, occupandosi del sostegno psicologico a tutti coloro che subiscono traumi (un esempio, il massacro alla Columbine High School), e dall’11 settembre 2001 lavora con i sopravvissuti e i familiari della costa occidentale e orientale degli Stati Uniti. È inoltre la fondatrice della Guadalupe Foundation, un'organizzazione che, tra le altre cose, trasmette via radio delle brevi storie che aiutano le popolazioni africane a conoscere problemi inerenti salute e igiene.

Ma il motivo per cui ci interessa Clarissa Pinkola Estès è il modo in cui, studiando su base analitica tutto il materiale che è riuscita a “scovare” dalle fiabe, dai miti e dai racconti popolari, ha enucleato una serie di archetipi necessari per indagare la parte più repressa del femminino la cui naturalità è stata addomesticata, resa timorosa e non autosufficiente, priva di iniziative e di autostima, facendole perdere i contatti tra la psiche individuale e l’anima. Sviluppare la difesa dagli inganni, rifiutare l’educazione alla passività considerando i fattori culturali e familiari che indeboliscono le donne è la teoria di base di questo insieme di saggi. Ma prima di entrare nel merito della raccolta e delle sue fiabe, vorrei fare un piccolo inciso riguardo lo schema seguito dall’autrice nello scrivere le sue fiabe e sul significato delle stesse. 

Clarissa Pinkola Estès ripropone in Donne che corrono coi lupi lo schema di Propp, l’antropologo russo che studiò le origini storiche della fiaba nelle società tribali e nel rito di iniziazione, e ne trasse una struttura che propose anche come modello di tutte le narrazioni. Ma cos’è la fiaba? La fiaba è una narrazione originaria della tradizione popolare caratterizzata da racconti medio-brevi e centrati su avvenimenti e personaggi fantastici (fate, orchi, giganti…) coinvolti in storie con a volte un sottinteso intento formativo o di crescita morale. La fiaba e la favola sono due generi ben distinti: la favola è un componimento estremamente corto (della durata di poche righe) e vede come protagonisti animali o esseri inanimati, la trama è condensata in avvenimenti semplici e veloci, con un fine allegorico e morale molto esplicito, a volte indicato dall'autore stesso come postilla al testo; la differenza sostanziale tra favola e fiaba è la presenza o meno dell'elemento fantastico e magico, caratteristica peculiare della fiaba e completamente assente nella favola, basata invece su canoni realistici.

Le fiabe non venivano narrate solo per i bambini ma anche mentre si svolgevano lavori comuni, per esempio mentre si filava la lana, lavoro fatto di gesti sapienti, ma in qualche modo automatici, che non impegnavano la mente. Essendo lavori particolarmente femminili, la maggior parte dei narratori era femminile, anche perché spettava alle donne il compito di cura e intrattenimento dei bambini. Le fiabe in fin dei conti erano un piacevole intrattenimento per chiunque, e "davanti al fuoco" erano gradite ad adulti e bambini di entrambi i sessi.

Vladimir Propp nel suo scritto Morfologia della fiaba propose lo schema con 31 funzioni (Sequenze di Propp) inalterabili dell’ordine che compongono il racconto; ogni funzione rappresenta una situazione tipica nello svolgimento della trama di una fiaba, riferendosi in particolare ai personaggi e ai loro precisi ruoli dando più importanza per esempio a quello che fa il personaggio piuttosto al chi è il personaggio stesso. Lo schema generale di una fiaba è basato sull’equilibrio iniziale (l’esordio), sulla rottura dell'equilibrio iniziale (movente o complicazione), sulle peripezie dell'eroe e sul ristabilimento dell'equilibrio (conclusione).

Riprendendo la nostra fiaba, in particolare, con l’analisi dell’archetipo della donna selvaggia, Pinkola Estès intende aiutare tutte le donne che sono alla ricerca di se stesse, e con la storia narrata, la meditazione, il canto, la scrittura, la pittura o l’educazione musicale può riprendere contatto con l’anima (la donna selvaggia sepolta nella parte più profonda), che esce dalla sua dimora utilizzando l’energia mentale per realizzare quello stato di solitudine necessario per ritrovare l’essenza femminile, un essere naturale che possiede “la creatività passionale e un sapere ancestrale”. 

Prima della donna scheletro, nel suo libro incontriamo Barbablu, “l’uomo nero nei sogni delle donne” che rappresenta il predatore della psiche femminile, che causa quel malessere che a livello conscio la donna non risente perché abituata a obbedire ciecamente, tanto da non capire che spesso il rifiuto può aiutarla a salvarsi. In questa fiaba tutto ruota intorno alla chiave della porta che la donna non deve aprire pena la morte (colpevolizzazione e castigo per la disobbedienza), perché usare quella chiave sarebbe per lei la conoscenza, la sua consapevolezza, ed è la stessa autrice a dire che l’aspetto più interessante dell’autoconoscenza è che "nei misteri eleusini la chiave era nascosta sotto la lingua, a significare che il nodo (...), l’indizio, la traccia si trovano in un insieme di parole, di domande-chiave". E quindi: "L’uccisione di tutte le mogli curiose da parte di Barbablù è l’uccisione del femminino creativo…”.

Ma torniamo alla storia del pescatore e della donna scheletro, dove una serie di eventi ci coinvolgono in una sorta di magia dall’inizio alla fine. Il primo “evento” ci porta al rapporto con il padre, per il quale tante donne hanno cambiato se stesse per compiacerlo, per sentirsi amate e accettate, e le prime ferite che si pensava essere state rimosse ecco tornare a galla… E quindi c’è il pescatore che rappresenta l’innamorato nella sua fase iniziale che pensa di aver trovato la compagna perfetta e non accetta i problemi, le difficoltà che il rapporto porta obbligatoriamente, anche nei confronti di se stesso. Si fugge sempre di fronte alla paura che il cambiamento possa modificare tutto il bello che abbiamo creato nella nostra storia, ma le zone d’ombra ci rincorrono, il filo della lenza è il legame che inconsciamente ci portiamo dietro perché vogliamo conoscere la verità, anche se nessuno è mai pronto alla trasformazione che di conseguenza è costretto a subire in se stesso e nel rapporto con l’altro.

Il “non bello” dell’amore è appunto il riconoscere che non tutto è “rose e fiori”, luci e suoni… La donna scheletro rappresenta la natura Vita/Morte/Vita del rapporto a due, solo vedendo il lato peggiore dell’altro, “sbrogliando” il filo intorno allo scheletro, non si muore ma ci si apre a nuova vita, fatta di nuove conoscenze, basata su altri presupposti e con legami sempre più intimi e saldi. Quando la notte il pescatore piange la sua lacrima che viene bevuta dalla donna scheletro, inizia la nuova fase: è la donna che viene a contatto con il dolore e le ferite che l’uomo non deve più affrontare da solo e di cui non deve più vergognarsi. E le apre il suo cuore e quindi l’accetta in tutte le sue forme: la donna scheletro si ricopre di carne e capelli, cioè rinasce a donna vera e completa, capace di amare ed essere amata, senza avere più paura di essere giudicata. E questo non è che il primo passo del ciclo di Vita/Morte/Vita che si percorrerà insieme nel cammino di crescita.

A Patrizia Boi, che mi ha fatto conoscere questa fiaba vorrei chiedere se anche per lei, come per ogni altra donna che ha letto il libro di Clarissa Pinkola Estès è iniziato il viaggio alla ricerca di se stessa, della propria anima…
Direi che sono una trentina d’anni alla ricerca della mia anima, a partire da quando ho letto Il Tempo Ritrovato di Marcel Proust, e poi ho proseguito stimolata continuamente da varie letture. Dieci anni fa, quando è nata mia figlia, avevo annullato totalmente me stessa per correre dietro ai bisogni della piccola. In quel momento ho letto la fiaba della Donna Foca nel libro Donne che corrono coi lupi. Sono scoppiata in un pianto irrefrenabile e da quel giorno ho capito che essere una buona mamma non significava rinunciare completamente alla propria natura, ma che era vitale immergersi di nuovo nel proprio oceano. Con l’aiuto di mia figlia ho continuato così il mio percorso di scrittura dedicandomi prevalentemente alle fiabe. Quindi la lettura e la spiegazione delle fiabe in chiave junghiana della Pinkola Estès mi ha instradata sulla via della fiaba e contemporaneamente mi ha consentito di approfondire la ricerca di me stessa come se fosse un nuovo inizio. Naturalmente questa scoperta sarà ancora molto lunga e sempre aperta a nuovi dubbi…

Leggi anche: Perla, la donna scheletro
Pubblicato: Martedì, 7 Gennaio 2014
Articolo di:  Maria Teresa Protto

La donna scheletro e l'archetipo della donna selvaggiaLa donna scheletro e l'archetipo della donna selvaggiaLa donna scheletro e l'archetipo della donna selvaggia
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