I libri di Patrizia Boi

sabato 25 gennaio 2014

Il Signor S: un Uomo non comune e i suoi due volti

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WSI
Domenica, 26 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Cultura

Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo

La simbiosi con Gaber e il realismo esistenziale

Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo
Sandro Luporini, Apparizione gabbiano 98-99 mb®
Coraggio, Ferdinand, ripetevo a me stesso, per tenermi su. A forza di essere sbattuto fuori dappertutto finirai di sicuro per trovarlo il trucco che gli fa tanto paura a tutti, a tutti gli stronzi che ci sono in giro, deve stare in fondo alla notte. È per questo che non ci vanno loro in fondo alla notte… 
Da Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline

Credo che Céline mi presterebbe questa frase per presentare il personaggio che intervistiamo oggi: Sandro Luporini. Qualcuno potrebbe chiedersi se si tratta del noto pittore che già negli anni Sessanta esponeva alla Galleria Bergamini di Milano, come rappresentante del Realismo esistenziale. O se si tratta, invece, del compagno di scrittura di Giorgio Gaber, lo storico amico e coautore con cui il Signor G ha prodotto tutto il Teatro-Canzone. Ebbene, anche se sembra difficile che un solo uomo e per giunta indolente – come lo definisce affettuosamente il suo gallerista e amico storico Adriano Primo Baldi – possieda entrambe i talenti, si tratta invece della stessa persona. Osservando i suoi dipinti e guardando il suo Teatro ci rendiamo conto che la Metafisica del Quotidiano pervade entrambe queste forme d'arte raggiungendo forse l’acme ne Il Grigio. 

Vorrei fissare l’attenzione sulla filosofia dell’Uomo affetto senza dubbio da quel genere di pigrizia collegata con il concetto di ozio creativo del sociologo De Masi e che trova le sue radici ne L’Elogio dell’Ozio di Bertrand Russell e ancor prima nel carpe diem di Orazio. Si tratta di un Uomo che attraverso i suoi dipinti manifesta la volontà di guardare liberamente (il gabbiano) dal proprio personale unico e irripetibile punto di vista (la finestra) la profondità del sommerso (il mare) inteso sia in senso individuale (l’uomo qualunque) o collettivo (il gruppo di uomini da scena felliniana… Ma sentiamo cosa ha da dirci: lo abbiamo intervistato nel suo studio a Viareggio.
Il mare, Sandro, è uno sfondo ricorrente nei tuoi dipinti. Ed è sempre calmo, forse un po’ grigio come si presenta spesso d’inverno… «… il mare, com'è naturale, immobile e piatto è quasi perfetto sta lì sempre uguale». Cosa germoglia in te mentre fissi la linea dell’orizzonte? Laddove il mare e il cielo si tendono la mano?
Sandro Luporini: Ormai non ho più neanche bisogno di guardarlo, il mare. È dentro di me e mi serve a pensare senza pensare. Avrei potuto dir meglio a pescare senza pescare nel senso di lasciare che una lenza vaghi libera senza avere la volontà di prendere qualcosa. Quando penso al mare, naturalmente, non penso al mare d’estate con le sue spiagge troppo affollate. Quello non mi appartiene.

La nave, sia veliero sia petroliera, per la tua lente di pittore è un’apparizione… «… una nave grande, enorme, che va, va, va. Non si sa dove va, non si sa quando è partita…». Nella Pittura come in Teatro… come reagisce il tuo immaginario quando un’imbarcazione scivola sull’acqua?
Quando penso a una nave non mi viene in mente il viaggio. Io non amo viaggiare, nel senso dello spostarsi da un luogo a un altro. Quello che per me è importante è andare, meglio se non si sa dove. Ecco, la nave mi evoca questa immagine, che in un certo senso assomiglia alla vita.

Spesso un Uomo di spalle nei tuoi quadri contempla il mare. Sono «le spalle comuni di un uomo qualsiasi, il grigiore quotidiano del capofamiglia che va al lavoro, o al suo focolare... »? Che relazione esiste tra la figura dipinta e l’uomo creato, con l’aiuto di Giorgio, ne Il Grigio? È nata prima l’immagine sulla tela o l’uomo qualsiasi del monologo? 
L’immagine dell’uomo di spalle, che appare in molti quadri, è nata prima e penso che rappresenti semplicemente la piccolezza dell’uomo di fronte all’immensità del mare. Invece l’uomo di spalle de Il Grigio nasce da una lettura di Fernando Pessoa, uno scrittore eccezionale che non mi vergogno di aver copiato molto. 

Dipingi abbracci di amanti e un gabbiano che spalanca le ali sul loro incontro. «Una sola cosa so della Donna, che è molto meglio cadere nelle sue braccia che nelle sue mani». Oggi, dopo quarant’anni di riflessioni, hai compreso qualcosa di più del Mistero della Donna? Che cosa rappresentava quel gabbiano allora e come vola adesso?
Dopo quarant’anni di riflessioni e di esperienze, anche amorose, di fronte al mistero della donna penso di essere un analfabeta. Per quanto riguarda il gabbiano, come è già stato detto per l’albatro, è un animale assai ambivalente: piuttosto goffo se coi piedi per terra e bellissimo in volo. Come il poeta.

L’Amore, il rapporto di coppia, la relazione, sono temi centrali nel Teatro-Canzone: « …vorrei riuscire a penetrare nel mistero di un Uomo e una Donna nell’immenso labirinto di quel dilemma». Cosa ti aspetti dalle tue relazioni? Al di là delle donne, come hai vissuto la relazione di amicizia e collaborazione con Giorgio? 
Sui rapporti d’amore credo di aver risposto nella domanda precedente parlando di analfabetismo. Dell’amicizia credo di aver capito qualcosa di più. Per esempio in quella con Gaber, oltre l’affetto, sono certo che ci sia stato un forte desiderio di crescita insieme. C’è un’altra cosa in cui l’amicizia si differenzia dall’amore: non conosce il tradimento. 

Nel monologo Il Grigio addirittura l’Amore diventa La Cosa: « ...sarà sempre una parola che vola, una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza... ». Ci racconti come è nata l’idea del topo? Del doppio? E de La Cosa? È stata una trovata di Giorgio? O un’intuizione tua sapendo come l’avrebbe potuta interpretare Giorgio? 
Circa La cosa ti posso dire solo che c’era in noi la volontà di togliere dalla parola Amore tutto ciò che c’era di poetastrico e risaputo. Per quanto riguarda la nascita de Il Grigio la faccenda è più complicata. Un comune amico ci raccontò di quando casa sua era stata invasa da un’enorme quantità di piccoli topi. Questo ci diede lo spunto per raccontare, in tono ironico e paradossale, i vari tentativi – sempre fallimentari – di una guerra tra l’uomo e quegli astutissimi animaletti. Ma questo non era sufficiente per un lungo monologo teatrale o, meglio, non era abbastanza emblematico. Però un bel giorno un altro amico mi raccontò che sua madre, in una cucina con soffitto a vetrata, vide una grossa ombra scura che si muoveva sopra di lei e scoprì poi che si trattava di un grosso topo. Ecco la scatola teatrale giusta: il nemico.

Come ti ha influenzato questa poesia di Montale « …com’è tutta la vita e il suo travaglio/in questo seguitare una muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia»? Dove, nei tuoi scritti e dipinti, sottolinei l’atmosfera di grande incomunicabilità dell’esistenza? Come si svolgevano le conversazioni con Giorgio su questo tema?
Dai diciassette ai vent’anni, come molti adolescenti, ho scritto centinaia di poesie. Ero innamorato del Montale e lo copiavo senza accorgermene. Questo però non c’entra col teatro che, come sai, è molto successivo. La parola incomunicabilità è stata molto dibattuta da me e Giorgio, soprattutto in riferimento ad alcuni film di Antonioni e di Bergman. 

Nella scacchiera esistenziale che spesso rappresenti nei tuoi quadri presumo che il Signor G sarebbe posto tra i pedoni. E la classe politica italiana, da quale pezzo o pezzi sarebbe meglio rappresentata e perché? Quali sono le tue regole nel gioco degli scacchi e quali mosse preferisci?
Nella mia scacchiera Gaber sarebbe la regina che si muove in tutte le direzioni. Basta guardarlo recitare. Il signor G, invece, sarebbe più il re, che si muove a piccoli passi ed è sempre circondato. Sono i rappresentanti della nostra classe politica ad assomigliare di più ai pedoni, che si muovono poco e, solo all’inizio, con lo slancio di due case. Io come scacchista valgo poco, però mi piacciono le mosse d’attacco. Qualche mossa del genere a volte l’ho fatta nel teatro, per poi riscivolare subito nel mare del dubbio.

Il Signor G può essere considerato un Uomo senza qualità alla maniera di Musil? E in questo caso, quali sono le qualità che non ha?
Il signor G è un uomo del dubbio, ma questo non lo porta mai a una forma di nichilismo o di paralisi, come accade invece all’Ulrich de L’uomo senza qualità. 

Secondo Sgarbi sei «un combattente dell’arte dell’illusione e dell’immagine» e ti riconosce «uno status di intellettuale pluridisciplinare d’altri tempi». Secondo te che Uomo sei? E che Uomo saresti voluto essere?
Vittorio, per una volta nella sua vita, è stato troppo buono. Che tipo di uomo io sia veramente non lo so proprio. Una volta avevo qualche aspirazione, ora mi accontento di essere un uomo. Ma forse è proprio questa la più alta – e difficile – delle aspirazioni.

È interessante il concetto di egoismo sublimato che hai coniato a proposito di Giorgio nel tuo libro G. Vi racconto Gaber… Come si esprime in te questa forma di egoismo?
Mi piacerebbe molto che, senza volerlo, il mio egoismo – se per egoismo si intende l’innata pulsione verso la realizzazione del proprio sé più autentico – andasse a coincidere con il dare qualcosa agli altri. Ma anche per fare questo bisognerebbe essere qualcosa come un uomo, altrimenti si rischia di cedere alle lusinghe dell’altro egoismo, quello non sublimato; quello che, invece di mirare alla realizzazione del sé, vuole solo che il nostro io prevalga e si affermi su quello altrui.

In quale modo Proust ha influenzato la tua opera pittorica? E quella creativa in genere? Quando hai ritrovato il tuo tempo? 
Proust è stato la mia seconda cotta giovanile e ha influenzato la prima parte del mio lavoro pittorico: il realismo esistenziale. La seconda parte, quella della Metacosa, ha più a che vedere con la lettura di Thomas Mann. Mi spiego meglio: mentre secondo me Proust coglie le cose e le persone in flagrante, Mann le blocca quasi nell’assenza di tempo. Questo assomiglia di più a quella certa metafisica del quotidiano che c’è nei miei ultimi quadri.

Se per il Teatro il tuo riferimento era Giorgio, per la Pittura era ed è Adriano: ci racconti della tua collaborazione con Adriano Primo Baldi? Da quanto dura? Ci descrivi le condizioni del vostro “Contratto”? 
Con Adriano ci conosciamo fin da quando organizzò a Modena una mostra di pittori che ancora non sapevano che di lì a poco avrebbero formato il gruppo della Metacosa, il che vuol dire da più di quarant’anni. Vorrei che Adriano fosse qui ora per ridere insieme a me della parola contratto. Siamo solo in un forte rapporto di amicizia in cui se io non faccio quadri e lui non fa mostre nessuno si lamenta. Mi è anche capitato di avere proposte da altri galleristi, ma le ho rifiutate. Come ti dicevo prima, l’amicizia non conosce il tradimento.

Cosa rappresenta il Tempo per il Pittore Luporini? E lo Spazio per il Luporini paroliere? Per me il tempo è uno dei concetti più inquietanti in assoluto. Non sono mai riuscito ad assorbire fisicamente il senso del prima, ora, dopo. Il concetto di spazio, invece, non mi dà nessuna inquietudine. Riesco a percepire fisicamente il vicinissimo come il lontanissimo, e forse persino l’infinito, anche se questo probabilmente è accostabile alla categoria tempo.

La tua opera è pervasa «di un gran senso religioso ma non di religione», qual è il tuo approccio spirituale alla vita? Se tu fossi Dio… oggi… cosa diresti alla nostra classe politica attuale… ?
Oggi una canzone come Io se fossi Dio non avrei certo il desiderio di riscriverla e, se fossi Dio, non avrei alcuna voglia di parlare della classe politica. Il mio senso religioso, se c’è, è il desiderio di avere ancora una certa intenzionalità della vita e della storia. 

Mentre la filosofia classica elaborava pensieri raffinati che potevano spiegare all’uomo come perfezionare la propria natura, Diogene invitava a godere della pienezza dell’attimo, con i piedi ben piantati sulla terra… Nel tuo Diogene, invece, quale messaggio intendi trasmettere?
Quello che mi piacerebbe trasmettere è il desiderio di trovare una certa interezza, un equilibrio tra corpo e mente. Per questo motivo non trovo molta contraddizione tra pensieri raffinati e piedi sulla terra.

Secondo il sociologo francese Alain Touraine «siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto». Stato, Società e famiglia collassano con il tramonto del capitalismo industriale e per dirla con Marcuse ora più che mai dilaga L’uomo a una dimensione. Secondo te quali margini di libertà ci sono rimasti?La frase di Touraine è molto bella e suggestiva. Avrei voluto rubargliela. Sarebbe stata bene in un teatro pieno. Per quanto riguarda il concetto di massificazione – tanto caro ad Adorno e Marcuse –, io e Giorgio ne siamo stati talmente interessati da costruirci intorno quasi un intero spettacolo, Libertà obbligatoria. A differenza dei filosofi della scuola di Francoforte, però, credo che l’individualità di ogni essere umano sia irriducibile. Per questo i margini di libertà dell’uomo sono sempre, anche oggi, molto ampi. Nella storia ci sono sempre stati dei momenti in cui si è cercato di reprimere il pensiero e l’individuo, ma pensiero e individuo sono sempre risorti. 

«La luna continua a essere immobile e bianca, come ai tempi in cui c'era ancora l'uomo», dov’è finito l’Uomo o Sandro? Dove lo possiamo ancora cercare? Di che cosa hai una grande Paura?
Parlare di paura mi sembra eccessivo, ma potrei dirti che mi preoccupano il qualunquismo e la poca profondità e acutezza di pensiero. Perché se è vero che oggi ci sono alcuni segnali di rifiuto verso il nostro vecchio mondo, è anche vero che mancano ancora la chiarezza, l’individuazione del nemico vero, una certa consapevolezza e, come dicevo prima, una forte intenzionalità della vita e della storia. Ma forse è solo che l’uomo è ancora in incubazione.

Cosa fermenta ancora nell’antica cantina delle tue idee?
Alla mia età, in genere, si partorisce poco o niente. Tutt’al più c’è una rielaborazione e forse anche chiarificazione di alcuni concetti già espressi. È abbastanza difficile fare il famoso scatto oltre.

Come immagini che sia il fondo della Notte? 
Pur essendo un grande estimatore di Céline, credo di averlo apprezzato più per il suo linguaggio che per le sue conclusioni sempre catastrofiche. Contrariamente a lui, io vedo il fondo della notte come quell’attimo che abbraccia l’alba come una rivelazione. 

Come potrei concludere questa intervista se non con le stesse parole di Luporini? O forse sue, ma anche un po’ di Gaber… Sono certa che il Signor G me le presterebbe volentieri, anzi, uscirebbe lui stesso dal Sipario dietro al quale ci osserva e direbbe: « …ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente 
lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo».

Sembrerebbe una conclusione spietata e senza speranza… Ma io scrivo fiabe e costruisco sogni, immagino mondi migliori e faccio volare i gabbiani della Fantasia. Nella mia scacchiera giocano fate ed elfi, cavalli alati e baldi cavalieri, il re e la regina si salvano sempre dallo scacco e i pedoni non sono mai solo bianchi e neri. Alla fine della partita i principi e le principesse contraggono matrimoni e i vinti si trasformano in vincitori, e nella fiaba, anche se è a lieto fine, c’è sempre un conflitto, una difficoltà, una criticità da affrontare e un percorso da fare per sciogliere i nodi irrisolti… La "cosa" è trasformazione, percorso, crescita insieme... sì, per diventare un insieme solido, indistruttibile. Una radice profonda... Quello di Luporini, quindi, è stato solo un percorso di crescita insieme per darci ancora la speranza di trovare l’Uomo… E ora… siamo giunti al termine dell’Intervista… ed è il momento di calare il sipario. E questa per Luporini è la parte preferita…
Pubblicato: Sabato, 25 Gennaio 2014
Articolo di:  Patrizia Boi

Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo
Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo

lunedì 20 gennaio 2014

LegenΔe di Piante

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Lunedì, 20 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Benessere

LegenΔe di Piante

Gennaio. L'Abete

LegenΔe di Piante

L'Abete, a cura di Lucia Berrettari
L’Abete è il grande maestro: è attraverso di lui che impariamo la magia e riusciamo a credere nell’infinito del tutto possibile. L’Abete ci riporta alla natività, alle fate, al mistero, cancella i confini tra i mondi e li unisce tutti. Insegna che solo attraverso l’unione tra tutti questi mondi ci può essere la forza e la struttura della nostra anima. L’anima, la nostra parte immortale, è come lo scheletro indistruttibile nel tempo. L’Abete si innalza verso il cielo e verso lo spirito, ma si allarga con i suoi grandi rami orizzontali anche per incontrare gli altri Abeti: al di là di ogni confine l’Abete ci insegna a credere e ad amare.

L’Abete Bianco (Abies Pectinata), a cura di Lidia Costa
L’Abete Bianco è una grande e magnifica conifera apparsa sulla terra più di 50 milioni di anni fa, superando tutte le crisi geologiche. Tuttavia è un albero delicato che necessita, durante i suoi primi anni di vita, di un riparo. La sua giovinezza è caratterizzata da una crescita lenta; con gli anni, grazie al suo aspetto maestoso, forma vaste e dense foreste. L'Abete Bianco abita le montagne del Sud e Centro Europa: raggiunge i 50 metri d’altezza con tronchi che possono avere anche 2 metri di diametro. Vive comunemente 200 anni, ma verso i 100 anni cessa di crescere. Abies Pectinata è il nome che gli è stato attribuito dal botanico svizzero De Condolle nel 1805 a motivo delle sue foglie disposte a pettine. La corteccia è liscia con piccole sacche resinose, poi, con l’invecchiamento si fessura nel senso della lunghezza. Il tronco è diritto, color bruno-giallastro, con rami opposti quasi orizzontali che formano una vetta piramidale. Le foglie (aghi) sono persistenti, lineari, lunghe e sottili. I fiori sono disposti in amenti, quelli maschili di colore verde-giallo inseriti sulla parte inferiore dei rametti, mentre le infiorescenze femminili, di colore rosso-violaceo, inserite sulla parte superiore dei rami più vicini alla sommità dell'albero. La pianta ha pigne cilindriche che si sgretolano dall'asse senza cadere. Vive nei boschi montani nell'area del Faggio (dai Pirenei alla Turchia, dalla Germania alla Sicilia) prediligendo un suolo con terreno profondo fresco e fertile.
Simbologia e leggenda
Fin dall’antico Egitto l’Abete Bianco fu considerato l’albero della natività. In passato, esistevano riti dedicati alla Grande Madre in cui si usava innalzare, nella piazza del mercato, una pianta di Abete. Durante il rito, degli uomini nudi che portavano sulla testa un’immagine della Madre Terra, la percuotevano allo scopo di liberare lo spirito del nuovo anno. Nell’antica Grecia l’Abete Bianco era consacrato ad Artemide, cioè alla Luna, protettrice delle nascite. L’Abete, insieme con la Betulla, fra le popolazioni dell’Asia settentrionale è ritenuto un Albero cosmico che si erge al centro dell’universo. Secondo gli Altaici è un Abete enorme che spunta dall’ombelico della Terra. Nel calendario celtico l’Abete era consacrato al giorno della natività del Fanciullo divino. L'Abete è fin dal Medio Evo "l'albero di Natale", perché anticamente era l'albero della nascita del sole e per similitudine della nascita di Gesù. Secondo tradizioni occulte gli alberi ospitavano spiriti intenti a ridare salute e speranza agli uomini, in particolare ai bambini. Nella tradizione celtica simboleggia la veggenza per mezzo di visioni e la realizzazione delle nostre più profonde aspirazioni. Nella cultura druidica, visto che gli Abeti restano verdi anche d’inverno, erano simboli di lunga vita e venivano tributati loro speciali onori nelle festività invernali.
Proprietà fitoterapiche
Dalla corteccia di giovani piante di Abies Pectinata "ricche di sacche resinose", si ricava la Trementina d'Alsazia un tempo usata - grazie alle sue proprietà balsamiche ed antisettiche - per inalazioni o per via interna contro i catarri bronchiali. Il suo uso è stato abbandonato poiché la trementina irrita i reni. Le gemme hanno proprietà balsamiche che le hanno rese famose nei tempi passati come uno dei più validi rimedi contro parecchie forme infettive dell'apparato respiratorio. Gemme e foglie hanno anche proprietà diuretica e antireumatica. Gli aghi d’Abete sono ricchi di Vitamina A. Infine la Gemmoterapia utilizza i germogli per favorire il passaggio del calcio alle ossa. Le gemme raccolte fresche e subito trasformate in macerato glicerico sono un prodigioso rimineralizzante delle ossa: sono usate nelle carie dentarie e nella piorrea. Sono un ottimo rimedio pediatrico perché hanno la proprietà di facilitare la crescita del tessuto osseo dei bambini. Le gemme per uso terapeutico si raccolgono a marzo nei rami più bassi dell’Abete per non pregiudicare la crescita della pianta. Come re del bosco, l’Abete Bianco trasmette armonia, pensieri intensi, e ci aiuta a fare una pausa dallo stress di bisogni e desideri inutili.

I Rimedi di Lidia 
Abetosso 
Rimedio efficace contro le fratture: 
- MG Abies Pectinata 
- MG Betula Verrucosa 
Abietrico 
Rimedio pediatrico contro l’inappetenza: 
- MG Abies Pectinata 
- MG Rosa Canina 
- MG Betula Pubescens 
Abiespiro 
Rimedio efficace per le vie respiratorie: 
- MG Abies Pectinata 
- MG Rosa Canina 
- MG Ribes Nigrumi di Lidia

Leggi anche: LegenΔe di piante - Cultura

Per maggiori informazioni: 
www.luciaberrettari.it
www.ilquarzorosa.org/operatori/lidia-costa/ 
Il prossimo appuntamento è per l'1 Febbraio con l'Acero.
Pubblicato: Lunedì, 20 Gennaio 2014
Articolo di:  Patrizia Boi

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G E N N A I O - L'Abete Bianco di neve

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Lunedì, 20 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Cultura

LegenΔe di Piante

Gennaio. L'Abete Bianco di neve

LegenΔe di Piante

Era solo un alberello di pochi mesi quando vide la sua prima nevicata. Aveva appena levato dalla terra i suoi teneri rametti, tirato fuori i primi aghetti, fitti fitti, verdissimi, raggruppati sui rametti come denti di un pettine, aggrappato bene al suolo le sue radicette, che una tempesta di neve lo investì dalla chioma alle radici. I fiocchi cadevano dal cielo come se si muovessero in un oceano bianco e lui restava immobile ad ammirare quelle palline irregolari immaginando che fossero tanti baci del cielo. Il cielo lo salutava, gli dava il benvenuto al mondo regalandogli un’infinità di baci bianchi. Gli era sembrato di buon auspicio ricevere quel piacevole battesimo, si rallegrava di tutto quel candore, benediceva quei fiocchetti, quel silenzio ovattato, quella caduta serena e tranquilla. Si guardava le foglioline curioso, il nuovo abito di cui lo rivestiva una natura benevola e materna, allungava la chioma per riuscire a sbirciare il suo tronco, per capire se la corteccia madreperlacea si era rivestita del manto dell’inverno e, siccome non riusciva a piegarsi, allora si guardava tutto intorno incuriosito.
Che spettacolo straordinario gli offriva Madre Natura. Era circondato da tanti Abeti della sua specie, così maestosi e slanciati nelle loro vesti invernali, ancora più suggestivi nel loro candore innevato. Erano alberi altissimi, tanti giganti che lo guardavano dall’alto, eleganti e impassibili al mutare del loro mantello. Sembravano tanti principi superbi, con lo sguardo volto al cielo, consapevoli del proprio valore, con i rami elegantemente pettinati e appiattiti come nidi di cicogna. Ancora si poteva scorgere qualche parte di chioma, verde-blu cupo, un’infinità di aghi lunghi e con la punta arrotondata, con la parte superiore lucidissima e quella inferiore un po’ biancastra e si poteva ammirare qualche tratto bianco-grigio argenteo di corteccia non ricoperto dalla neve. Eppure man mano che la neve si raccoglieva al suolo, l’Abete percepiva uno strano calore, come se tutta quella neve morbida gli donasse protezione e amore. Si sentiva avvolto in quel magico abbraccio che protegge dal gelo consentendo alla terra di far entrare il fluido magico della vita, quel liquido bianco capace di fecondare nuovi semi e di farli germogliare dopo una solida unione. Il contatto con quel fluido gli dava una piacevole emozione, si sentiva partecipe della magia del paesaggio, della grandezza della Foresta, dell’ineguagliabile fascino dei suoi fratelli Abeti.
I fiocchi erano sempre più grandi e pesanti e scendevano in ogni direzione, guidati da un gelido vento, infiniti granelli di ghiaccio che si depositavano soffici al suolo. L’anima dell’Abetino studiava il mistero di quell’avvenimento, cercava di comprendere l’arcano segreto di tanta magnificenza, si abbandonava alla fantasia, godeva di ogni attimo. Ci sarebbe voluto uno sguardo più adulto per accorgersi dell’armonia degli abiti femminili delle Faggete, dell’equilibrio dei fusti dei cugini Aceri, della possanza del vecchio nonno Olmo, della poesia della Betulla, del fascino dei Carpini… Invece la sua giovane età lo faceva attento a ogni fruscio, a ogni soffio di vento, a ogni carezza che riceveva sul volto. Immaginava spiriti e spiritelli, gnomi ed elfi, fatine e streghette. L’alberello era davvero ammaliato da tanta grazia, stupito da ogni novità, incuriosito da ogni mutazione.
Alla fine della nevicata si accorse di quello specchio di ghiaccio, di tutta quell’acqua che lo aveva dissetato e rallegrato nella bella stagione e che ora era una lastra liscia e omogenea, un riflesso argenteo del giardino del Paradiso. Il suo laghetto montano pieno di trote e salmerini, dove contemplava il movimento delle salamandre e dei tritoni, si era trasformato in uno stadio ghiacciato per far pattinare i monelli della valle vicina. La piantina pensava alla pacata marmotta, all’effervescente capriolo, al simpatico daino, al superbo cervo, alla scaltra volpe, al rumoroso cinghiale, al famelico lupo. Dove si erano rifugiati? Avevano fatto in tempo a ritirarsi nelle loro tane? Avrebbero trovato il cibo per sopravvivere Dove si sarebbero abbeverati? Si faceva un sacco di domande nel tepore di quelle immagini da favola. Si chiedeva dove fossero finiti gli uccelli, dov’era scomparso il loro canto, dove avevano sepolto i loro nidi. Per un attimo lo sfiorò un impercettibile senso di tristezza, poi pensò alle poiane, al canto della civetta, al volo delle aquile, si ricordò della nobiltà dell’Aquila Reale, dell’imponenza del suo volo e di nuovo la sua linfa riprese a scorrere con calore e tutto il suo fusto ricominciò a sorridere.
In quell’istante gli comparve davanti uno splendido esemplare d’ermellino bianco, un animaletto estremamente vivace e forse anche un poco aggressivo. Con le zampette si arrampicò sul suo tronco sottile mordicchiando ogni tanto la corteccia alla ricerca di qualcosa di commestibile. Una bimbetta curiosa lo inseguiva. Si fermò di fronte all’Abetino e subito l’ermellino scappò via. La bimba allora accarezzò la corteccia della piantina, prese un poco di neve e l’assaggiò. Indossava una cuffietta di pelliccia e un cappottino azzurro, aveva il naso rosso per il freddo e le guanciotte piene d’allegria. Sentì subito l’emozione dell’alberello e udì il suo alito di voce. I bambini comprendono sempre la musica degli alberi, conoscono le loro sinfonie e danzano le loro ballate. La piccolina prese l’Abete per il rametto, gli sospirò all’orecchio un segreto e cominciò a cantare con lui. Le loro voci si unirono nel tripudio del silenzio e ogni angolo di bosco si mise in ascolto. La neve si fermò un attimo in cielo sorpresa di quelle note sommesse nella quiete del bosco, poi ricominciò implacabile la sua discesa verso terra. Il sole brillò tra le nubi facendo penetrare senza invadenza un unico raggio che sfiorò la chioma dolce dell’Abetino. La bimba lanciò un urletto di gioia che scosse ogni foglia della foresta.
Da quel giorno, ogni mattina, la bambina andò a giocare con lui. Lo vestiva con ogni genere di stoffa, lo addobbava con ogni tipo di ritaglio, ci appendeva i suoi pupazzi, le pigne secche del bosco e ogni oggetto che le piaceva. Talvolta lo lasciava carico di collane e ciondoli e pieno di tutti i suoi sogni. Così trascorsero tutto l’inverno, sempre divertendosi in mezzo alla neve. Quando giunse la bella stagione, mentre i due amici si confessavano i loro segreti, s’udì un fruscio tra le foglie. La bimba si voltò e vide l’ermellino nel suo vestito primaverile, una pelliccia bruna con la coda nera. Era accompagnato da un’ermellina con la pelliccia ambrata. Gli ermellini fecero un inchino in segno di saluto, poi tornarono a percorrere la loro strada. La bambina e l’Abetino si presero per mano e si guardarono contenti. L’alberello tolse le radici dal suolo, stiracchiò le gambe e s’incamminò verso l’ignoto della crescita. Inesperto com’era, muoveva insicuro i suoi primi passi guidato dalla mano sicura della sua amica. Salirono insieme sul pendio più scosceso della montagna e raggiunsero con fatica la vetta. Uno gnomo con il vestito viola li accolse nella sua casetta e li nutrì con semi di zucca e di girasole.
In poco tempo, i due si trasformarono in un principe e una principessa, due splendidi altissimi Abeti bianchi senza corona e senza regno.
Anche adesso che sono passati mille anni, li troverete ancora lì, al limitare del laghetto, con i rami intrecciati dall’amore e le chiome innevate ancora di fresco.
Quando la neve soffice scende
un manto candido nel suolo stende
per far entrare un fluido vitale
che possa un seme far germogliare.
Una piantina col cuore sincero
può abbandonarsi se ama davvero
e se si unisce con forza e coraggio
si trova avvolta in un magico abbraccio.
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Il prossimo appuntamento è per l'1 Febbraio con l'Acero Burlone.
Pubblicato: Lunedì, 20 Gennaio 2014
Articolo di:  Patrizia Boi

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