I libri di Patrizia Boi

sabato 1 febbraio 2014

Febbraio: L'Acero Burlone a cura di Patrizia Boi

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Sabato, 1 Febbraio 2014

REPORT - Italy, Cultura

LegenΔe di Piante. L'Acero burlone

L'appuntamento di Febbraio

LegenΔe di Piante. L'Acero burlone

Un Acero ancora giovane viveva nella campagna assolata circondato da Aceretti appena nati. Il suo tronco corto e contorto spiccava tra gli alberelli per via della chioma abbondante e intensamente colorata. Da esso partivano numerose ramificazioni anch’esse contorte e coperte di foglie palmate verdissime. Per la verità il simpatico Acero era più affascinante in autunno quando si vestiva del suo abito giallo ambrato, lucente e suggestivo. La sua elegante corteccia liscia come seta mostrava i riflessi madreperlacei della sua fragilità, mentre le sue radici aggrappate al terreno con forza e decisione erano le giuste propaggini di un tronco immensamente possente. 

La sua crescita era stata lentissima anche se ora aveva quasi l’aspetto di un albero adulto, eppure quel suo carattere solare e quell’atteggiamento un po’ burlone manifestavano un animo ancora fanciullo. Certo, stare sempre in mezzo ai piccoli lo aveva divertito e rallegrato, ma, per quanto fosse stato così piacevole, non gli aveva consentito la piena maturazione. Infatti non aveva ancora regalato i suoi migliori frutti, eppure di fiori ne era ricolmo, ma non riusciva a trasformare quelle perle nei giusti raccolti. 

Tutta quella foresta di piantine da cui era attorniato stimolavano la sua fantasia, gli facevano inventare storie e racconti, musiche e canzoncine e soprattutto un’infinità di giochi. I giovanetti si entusiasmavano a giocare con lui, ma chi se la spassava più di tutti era lui stesso. Ogni giorno se ne inventava una, toglieva una radice dalla zolla e si spostava nel prato, cosicché nessuno sapeva mai dove sarebbe andato e dove lo avrebbe trovato. I ragazzi s’intrattenevano a cercarlo, si passavano la voce che era nascosto e tutti insieme gli davano la caccia. Non era mica facile riconoscerlo, era capace di abbassare completamente i suoi rami e appiattirsi verso terra come un piccolo cespuglio. Rimaneva silenziosamente raggomitolato su se stesso e se qualcuno lo scorgeva trovava un altro modo per burlarsi di lui. Faceva ridere ogni piantina, era il re degli alberelli, ma nessuno lo prendeva sul serio. Nonostante lui potesse produrre una musica prodigiosa, un’infinità di suoni a seconda del suo stato d’animo, nonostante la sua linfa scorresse nel tronco con intensità e sensibilità straordinaria trasferendo nell’armonia della musica una danza equilibrata ed equilibrante, le piante del bosco accoglievano le sue melodie, la voce del suo mondo nascosto, i suoni più antichi, cogliendone l’essenza stessa ma rimanevano sconcertate dal suo comportamento infantile. 

Gli sarebbe piaciuto avvicinarsi a qualche splendida Quercia, corteggiarla e stare a lungo in sua compagnia, ma era troppo timido per riuscire a trattenerla e troppo sprovveduto per interessarla come maschio. Le Querce ne erano attratte, lo ascoltavano intrigate, lo cercavano e lo ammiravano, ma non se la sentivano di adottarlo come un figlio. Certe Albere, invece, lo usavano approfittando della sua ingenuità e tenerezza, poi facevano scempio dei sui rami e calpestavano le sue foglie, facendo a pezzi il suo animo fragile e delicato. Quando qualche femmina gli scuoteva la chioma e il cuore, per paura di una nuova sofferenza, l’Acero si rifugiava nel suo mondo bam-binesco e diventava ancor più ridicolo. Come si sentiva solo, abbandonato alla sua puerilità, alla maschera che si era cucito addosso per nascondere i suoi bisogni! Gli ci sarebbe voluto un padre, un vecchio sottile e consapevole che gli insegnasse a essere più responsabile. 

In un giorno di primavera, mentre l’Acero emetteva una musica di suoni ricercati e fruscianti, affettuosa e avvolgente, un Faggio centenario discese dal cielo e si collocò proprio accanto a lui. Lo guardò in silenzio, lo ammonì per la sua semplicità e incominciò a spiegargli la via della crescita. L’Acero si allontanò temporaneamente dalle sue piantine, si accostò fermamente al Faggio e decise di diventare grande. Il Faggio era molto severo e lo riprendeva continuamente per il suo agire avventato e ansioso, ma ben presto riuscì a mettere in luce le qualità nascoste del giovane Acero. Cercava di orchestrare la sua musica eliminando la pateticità dei lamenti, facendogli distinguere la diversità delle note in funzione degli stati d’animo, della stagione, del tempo, della vicinanza di altre piante. In inverno la musica era pacata e semplice, ma quando giungeva la bella stagione diventava ricchissima, colma di bemolle e diesis, di una varietà di suoni che entusiasmavano anche l’ascoltatore più distratto. 

Talvolta il Faggio accarezzava l’Albero e gli faceva notare come il suono mutava, diventando prima più acuto, più alto, per poi scendere di nuovo facendosi più dolce. Se il vecchio padre gli stava vicino, l’Acero era felice della sua presenza, ma soprattutto lo rallegrava il contatto con le piantine che incominciò a guardare con affetto pa-terno. In quei momenti la sua musica affettuosa riempiva tutta la campagna d’avvolgente allegria. Grazie al Faggio, l’Acero s’accorse dei suoni invitanti che emettevano le altre piante, ognuna secondo la sua natura: le gentili Betulle chiacchieravano in continuazione, le Querce emettevano una musica solenne, le Felci una musica bassa e carica di mistero, le piante di Noce una musica sempre allegra. In questo modo imparava a costruire il suo pentagramma e a comprendere i pentagrammi delle altre piante, a leggere la chiave delle sinfonie femminili, a riposarsi ascoltando il Tiglio, a farsi stimolare dal suono vivace della Menta. In sostanza imparò a mettersi in contatto con il mondo vegetale che lo circondava, senza parlarsi più addosso per timore di non essere nessuno. 

Dopo anni di duro lavoro, il Faggio riuscì a far germogliare nell’Acero ogni sua potenzialità. Pensate che il suo legno fu scelto dagli esperti per costruire i violini più precisi e preziosi, quelli che riproducevano più perfettamente l’armonia di ogni suono. Una sera, proprio mentre l’Acero cominciava a sentirsi adulto, un’esplosione di fotoni trasformò l’Antico Faggio in un abbaglio di luce che si sollevò nella notte fino a raggiungere i cerchi di Giove. Da quel giorno, ogni notte il cerchio più luminoso del pianeta guida l’esistenza terrestre dell’Acero e gli suggerisce sempre la strada giusta. 

Se nel boschetto soffia una brezza 
come se fosse una dolce carezza 
ogni piantina suona un motivo 
pieno di note armonico e vivo.
Quando nell’Acero ingenuo e burlone 
il Faggio Paterno porta ragione 
possono nascere i frutti futuri 
dolci succosi gustosi e maturi.
Leggi anche: L'Acero

Il prossimo appuntamento è per l'1 Marzo con la Betulla.
Pubblicato: Sabato, 1 Febbraio 2014
Articolo di:  Patrizia Boi

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martedì 28 gennaio 2014

Un artista dai tanti talenti: Sandro Luporini

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Martedì, 28 Gennaio 2014

REPORT - Italy, Arte

Sandro Luporini, mestieri e passioni

Dalla Metacosa al sodalizio con Gaber

Sandro Luporini, mestieri e passioni

Sandro Luporini nasce a Viareggio il 12 luglio 1930 e studia Ingegneria all'Università di Pisa, che però lascia nel 1953 per recarsi a Roma e dedicarsi alla pittura. Nel 1956 si trasferisce a Milano, e con un gruppo di pittori dell’Accademia delle Belle Arti di Brera si ritrova ad essere un esponente del Realismo esistenziale.

Ecco… il Realismo esistenziale… Il Realismo esistenziale (denominazione data da Marco Valsecchi nel 1956 a causa del clima sociopolitico), sorto e sviluppatosi a Milano tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, non è stato un vero e proprio movimento pittorico ma un “clima” comune, un incontro di sensibilità che si sono trovate attente a recepire spunti e fermenti diversi: riflessioni su Camus e Sartre per esempio, o sui primi film di Fellini e Antonioni, sul Nouveau Roman francese, sulla crisi dell’impegno politico nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria (Realismo socialista)… un clima che prendeva atto dei limiti del realismo "ideologico" in pittura e riportava l’attenzione sull’uomo, sul suo racconto quotidiano, sulle sue emozioni e sentimenti di fronte al peso crescente di squilibri dovuti ai sistemi sociali dominanti, alle nuove mode e ai compromessi culturali.

Dalle “occupazioni delle terre” e le lotte nel mondo, dalle vaste metafore e dai grandi temi populisti (tematiche del Realismo dell'immediato dopoguerra) si passa al “ … banco della macelleria sotto casa, alla dolente incombenza di una luce cruda, di un gancio appuntito, di cose e personaggi trafitti dalla solitudine e dall’ansia…”. Sono immagini in tensione, assorte di fronte alla pressione del vero e impegnate a dare segni e spessori alle reazioni individuali, ai sentimenti e alle emozioni del privato. Questi artisti, avendo trascorso l’infanzia durante la guerra, con le loro opere povere di colore, cariche di dolore e di stupore e con le loro figure, i loro oggetti simboli di forte evidenza e impatto, sono stati accolti dal favorevole momento storico che è stato in grado di recepirne la ricchezza umana e culturale.

Tante furono infatti le gallerie d’arte che accolsero le loro opere: fin dal 1956 la Bergamini, all’epoca la più importante tra le gallerie d’arte milanesi, inserì tra i suoi pittori Sandro Luporini e Gianfranco Ferroni; nel 1963 Sandro Luporini, insieme a Vespignani, Ferroni, Aillaud, Guerreschi, Perez, Mac Garrel e Sughi, ebbe il privilegio di entrare a far parte del gruppo esclusivo di artisti della Galleria Fante di Spade a Roma; dal 1983 lo stesso Luporini si è legato all’Adac (Associazione Diffusione Arte Cultura) di Modena e con essa ha fatto mostre in tutta Italia.

… Altro momento “storico”, seppur breve, dal punto di vista pittorico, è la partecipazione di Sandro Luporini, assieme a Giuseppe Bartolini, Giuseppe Biagi, Gianfranco Ferroni, Bernardino Luino, Lino Mannocci e Giorgio Tonelli al movimento artistico la Metacosa, la cui prima mostra si tenne a Brescia nel 1979, e a seguire a Milano, Viareggio, Bergamo e Vicenza. La Metacosa ha una matrice figurativa di intensità poetica con una ricerca pittorica precisa e calcolata. Durante la prima mostra a Brescia, il critico Roberto Tassi scrisse: "Ogni pittore di questo gruppo ha la propria luce; la qualità e la sostanza della luce essendo diversa in ognuno di loro; la coincidenza di poetica non comporta coincidenza di stile o di poesia. Il fascino e la verità della mostra sta proprio in questo, nell'unire intorno a una comune idea, e quasi filosofia, della pittura, artisti molto diversi tra loro”.

La Metacosa non è stato un gruppo inteso come di solito si intende nel campo dell’arte recente: è stato piuttosto un gruppo di pittori che si sono incontrati a Brescia a una mostra, dove la sperimentazione del rapporto fra di loro era talmente priva di retorica che il testo d’introduzione non superava tre righe tipografiche, e per un breve periodo sono rimasti legati “allo stesso mercato”; poi la vita creativa ha deciso di spedirli ognuno sulla propria strada e lasciare come legame fra di loro non una linguistica estetica ma una consuetudine che s’è fatta con gli anni amicizia. Per ognuno di loro il percorso si è evoluto secondo le inclinazioni e i talenti, ma partendo da un momento di riflessione artistica e politica in un paese che usciva dagli anni di piombo e cercava di tornare all’ordine, magari formale. 

Gli artisti della Metacosa furono lasciati a un destino leggero non lontano da ciò che una volta si chiamava incomprensione, senza mai scomparire, dipingendo con una attenzione forte al contenuto e considerando la pittura uno dei cimenti del proprio anticonformismo, mentre al di là di loro si andavano generando gruppi veri e propri (la transavanguardia per tutti), oppure, le sperimentazioni precedenti dell’arte povera e concettuale si stavano trasformando in scuole affermate e stabili. Se dagli ultimi anni ’70 i dipinti di Luporini evocano, con linguaggio iperrealistico, uno spazio traguardato dalle “finestre” (lui spesso parla di “sguardare”), nel quale si pongono come punti di riferimento oggetti legati al tema del volo, è dalla metà degli anni ‘80 che nei quadri di Luporini si vedono i grandi spazi delle marine della Versilia, con riferimenti all’iconografia della nautica in una fredda, nitida luce…

… Ma sia Realismo esistenziale, sia Metacosa, l’attività pittorica di Luporini è sempre andata avanti: espone quadri nelle più importanti rassegne nazionali, ottiene riconoscimenti e premi. Nel 2004, il presidente dell’Adac di Modena Adriano Primo Baldi affida a Philippe Daverio, critico e storico dell'arte, antropologo e giornalista – noto al grande pubblico per le raffinate trasmissioni televisive sull'arte –, la cura della mostra Fenomenologia della Metacosa, 7 artisti a Milano nel 1979 e 25 anni dopo, che vedrà esposte presso lo Spazio Oberdan di Milano, per iniziativa della Provincia, le opere di Sandro Luporini e degli altri artisti che esordirono con lui. 

Nel 2005 il Comune di Pisa, sempre in collaborazione con l'Adac, gli dedica una mostra personale, allestita al Teatro Verdi. In questa occasione viene pubblicato oltre al catalogo delle opere pittoriche Sandro Luporini - Metafisica del quotidiano con testi di Giuseppe Cordoni, Marilena Pasquali e Eugenio Riccomini, anche il volume Immagini, parole e note nell'opera di Sandro Luporini, una raccolta di materiali e testi sul teatro di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, a cura di Micaela Bonavia.  Se finora si è parlato del pittore, non si può trascurare l’altro artista Luporini; siamo negli anni Sessanta e all’incontro con quel suo vicino di casa, un certo Giorgio Gaber, un giovane cantautore: nasce presto un'amicizia che sfocia nella collaborazione artistica, scrivendo insieme i testi delle canzoni e degli spettacoli teatrali che interpreterà Gaber. 

Lo stesso Luporini ha descritto l’incontro con Gaber come casuale, perché frequentavano lo stesso bar… uno andò a vedere le esibizioni, l’altro le esposizioni e divennero amici… l’uno rimase folgorato dall’energia che aveva l’altro nel cantare… e un giorno come tanti passati a parlare fu buttata lì l’idea di provare a scrivere insieme… e all’inizio fu un gioco, tanto che i primi tentativi rimasero nel cassetto… La prima collaborazione tra i due è una canzone interpretata da Maria Monti nel 1961, Sono le nove, che la cantante presenta nel disco come "scritta da un mio amico pittore, che descrive Milano proprio come la rappresenterebbe un pittore"… peccato che sul retro della copertina del disco c’è scritto erroneamenteLuparini.

E nacque con Gaber il Teatro-canzone. Anche qui è stato detto e scritto molto, perché trent’anni di collaborazione artistica non sono pochi… opere come Libertà Obbligatoria, Io non mi sento italiano o La mia generazione ha perso hanno dato l’input a considerazioni non solo artistiche ma anche politiche, visto che la cultura è sempre stata legata alla politica e la loro creatività è da definire certamente all’apice di quel qualcosa che smosse l’apatia degli anni ‘80 che stava sfociando pian piano nell’effimero. Ma aspetta… ecco qualcosa che forse può sembrare un aspetto nuovo (un altro?) di Luporini: il Sandro atleta, anzi, cestista. Eh sì, perché Sandro Luporini è stato anche un giocatore di pallacanestro: iniziò a giocare in strada, grazie a dei soldati americani che avevano costruito un campetto a Viareggio, e insieme a lui c’era anche suo fratello Francesco. Una famiglia legata a questo sport, visto che anche la sorella Carla aveva giocato prima di loro, quando la pallacanestro era uno sport completamente sconosciuto, tanto che per Luporini era solo uno svago. Fa parte della Vela Viareggio che comincia a vincere scalando la Serie C, poi la B e infine arrivando alla serie A. Sandro cestista giocherà in serie A per quattro anni (un anno con il Viareggio, due anni con la Stella Azzurra di Roma e l’ultimo anno con il Cantù)… una volta ha detto: «Non trovo una gran connessione tra arte e sport se non per il fatto che in entrambi gli specifici è necessaria la tendenza a lavorare molto per dare sempre il meglio di sé»…
… «Tof tof tof. Il paese è in una fase delicata. Tof tof tof, si è in un periodo di transizione, tof. Dlin Dlon. Oggi al parlamento, una mozione, l’avversario si alza, e mette lì la sua, una differenza, leggerissima, e… tatatpata. Dopodiché, tutti al tennis. Tof tof sì, giocano tutti al tennis, e qui mi incazzo»: questo è uno stralcio del monologo Il tennis, scritto da Luporini insieme a Giorgio Gaber. «Con Giorgio non parlavo molto di sport, – ha detto in una intervista Sandro Luporini – però, per rendere piacevoli le nostre pause di lavoro, abbiamo inventato un giochino. Inventato si fa per dire. Si trattava di una specie di calcio-tennis. Praticamente una rete, un pallone da calcio, quattro giocatori (due contro due) che tentano di fare il punto utilizzando solo i piedi e la testa. Io e Giorgio vincevamo sempre, anche perché le regole le avevamo fatte noi».
Mi piace concludere così le mie brevi note su Luporini, perché la solita figura un po’ misogina e introversa dell’artista contrasta con questa, allegra e scanzonata dello sportivo che a diciassette anni giocò contro la Francia nella nazionale juniores italiana di pallacanestro commuovendosi all’Inno di Mameli.

Leggi anche: Sandro Luporini: due talenti in un solo Uomo
Pubblicato: Martedì, 28 Gennaio 2014
Articolo di:  Maria Teresa Protto

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