I libri di Patrizia Boi

giovedì 12 novembre 2015

SAN POLICARPO E IL PARCO DEGLI ACQUEDOTTI DI ROBERTO LUCIANI

La realtà e l’illusione della plasticità

La chiesa di San Policarpo e il Parco degli Acquedotti

Chiesa di San Policarpo
Chiesa di San Policarpo
La chiesa di San Policarpo è l’architettura simbolo del quartiere Appio Claudio e uno degli esempi di arte sacra più significativi realizzati a Roma negli anni Sessanta.
Progettata dal noto ingegnere-architetto romano Giuseppe Nicolosi (1901-1981), che in San Policarpo lascia la sua più alta testimonianza, denuncia una forma esterna e interna alta e possente, posizionata a latere e chiusura del quartiere, all’interno tuttavia del pregevole Parco degli Acquedotti. Sviluppa una “pianta centrale” intrisa di significati simbolici, teologici e liturgici, manifestando due strutture diverse: una esterna di chiusura perimetrale, in muratura autoportante rivestita di fuori con blocchi squadrati di peperino alternati da ricorsi di mattoni, l’altra interna in cemento armato a sostegno della copertura. Dentro la Chiesa, sei grandi pilastri posti ai vertici dell’esagono interno sorreggono il tetto tramite altrettante alte travi disposte secondo i lati di due triangoli equilateri iscritti nell’esagono che, intersecandosi, disegnano una Stella a Sei Punte, il Sigillo di Salomone che esprime l’unione del cielo e della terra, del mondo spirituale con il mondo materiale.
È stato pubblicato uno straordinario libro in merito a questa architettura, scritto da Roberto Luciani, uno tra i maggiori storici dell’architettura in Italia, che delinea il percorso storico artistico del tempio. L’opera sarà presentata Venerdì 20 novembre 2015 alle ore 18 in Roma all’interno della chiesa di San Policarpo stessa alla presenza del Parroco Don Alessandro Zenobbi che ha avuto «la splendida idea di pubblicare per la prima volta un volume sulla Chiesa di San Policarpo che risponda alle attese di interpretare l’edificio dal punto di vista artistico e nello stesso tempo di ri-annodare i fili della storia della Parrocchia che fu fondata nel 1960». Oltre che dall’Autore, il volume verrà illustrato dal Vescovo Guerino Di Tora - già Parroco di San Policarpo fino al 1998 -, dal Direttore Generale del Ministero Beni Culturali Francesco Scoppola, dal Decano della Facoltà di Teologia dell’Università Pontificia Lateranense Nicola Ciola, dal Critico d’Arte e giornalista Prof. Mario Dal Bello. Nel corso dell’incontro, moderato dal Dott. Stefano Segreto, l’attore Luca Martella leggerà alcuni interessanti brani del libro accompagnato dal Sax di Matteo Martella.
Luciani affronta l’argomento con trasporto, spaziando in molteplici campi con abilità e sapienza come sostiene lo stesso Ciola: «Un cenno a parte merita poi la sapiente descrizione del rapporto tra pietre e luce all’interno dell’edificio: una luce che cala dall’alto e che inevitabilmente invita ad alzare lo sguardo e a spaziare, con gli occhi della fede, oltre la vetrata dell’abside, le colonne severe e l’ardita cupola che disegna, al suo interno, la stella di Davide: una chiesa che – potremmo dire - svolge in pieno il suo compito primario di aiutare i fedeli a raccogliersi in preghiera e a guardare in alto, molto più in alto di dove il limitato sguardo umano può consentire di arrivare».
Il testo diventa spesso poetico, come in questo passo in cui Luciani affronta il tema della luce: «Elemento caratterizzante la chiesa di San Policarpo è la luce… Si tratta di una luce liquida che scorre in flussi ascensionali e rifluisce in quegli spazi reali o illusori, a illuminare la complessità delle murature, creando al suo passaggio, punti di vista diversi, nuovi centri focali. In questo gioco di interventi, il maestro coglie le forme alle quali riesce a conferire la realtà e l’illusione della plasticità».
Luciani evidenzia molto bene il rapporto che Nicolosi vuole avere con lo spazio circostante: «Nicolosi trova nella fabbrica di San Policarpo un rapporto col passato, un rapporto diverso con lo spazio. Su questo spazio, dopo l’incanto cromatico senza tempo e di tutti i tempi, egli trasferisce la natura e i suoi abitanti, che certo lo attraggono, con comunicazione funzionale in senso stretto, diventando ipotesi, vis di altri messaggi: elementarità di volumi e segni aulici si sovrappongono, invenzioni del gesto si intrecciano, l’attualità si avvicina alla storia, i tenui colori del peperino e dei mattoni che quando la pioggia li bagna si scuriscono preparano le future sintesi plastiche che non appariranno come un sacrificio della fantasia a vantaggio dell’evidenza, ma come un concentrato della vissuta dialettica architettura-natura, col vantaggio di seminare nella sua spirituale ragione una luce universale».
La Chiesa oggetto del libro è inserita nello spettacolare contesto del Parco degli Acquedotti, costituente parte integrante del Parco Regionale dell’Appia Antica, che prende il nome ed è caratterizzato dalla presenza di antichi acquedotti che assicuravano l’approvvigionamento idrico di Roma. A questo luogo l’autore dedica la seconda parte del libro: l’area è attraversata da sette acquedotti, sei di epoca classica (Anio Vetus, Marcio, Tepula, Iulia, Claudio, Anio Novus), databili tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C. e uno di epoca Rinascimentale (Felice), voluto e commissionato dal pontefice Sisto V (Felice Peretti, 1585-1590). Oltre agli Acquedotti, Luciani dedica uno spazio all'Acqua Mariana, alla Villa delle "Vignacce", al Casale di Roma Vecchia e alla Torre del Fiscale, costruzioni che affiorano tra i campi del Parco come germogli magicamente cresciuti in un altro tempo.
Sempre nella postfazione dello stesso Ciola emerge anche una connotazione teologica dell’opera: «Direi che l’Autore riesce a tradurre nella sua opera quella verità inequivocabile della nostra fede cristiana e cioè che la chiesa si realizza in un luogo e in un tempo. Quando la storia di un luogo e di un tempo si incrociano concretamente, si è nella certezza che vi è una chiesa viva che continua a pulsare e ad essere all’altezza dei tempi. Roberto Luciani ha l’innegabile merito di aiutarci a comprendere che il disegno dell’architetto Nicolosi si sposa in modo sorprendentemente coerente con i progetti e i disegni dell’Architetto dell’universo e della storia dell’uomo, quel Dio trascendente che ha parlato in una storia particolare che è diventata storia universale e incarnata di salvezza».
Il tema della Salvezza è presente nelle iscrizioni della Parrocchia tratte da Dies Irae di Tommaso da Celano:
Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis!
(O Re di tremenda maestà,
che salvi per la tua grazia coloro che sono da salvare,
salva me, o fonte di pietà!
)

lunedì 9 novembre 2015

I racconti della Nuraghelogia di Raimondo De Muro

I racconti della Nuragheologia

Incontro con Raimondo De Muro

Pastore con gregge in Sardegna
Pastore con gregge in Sardegna
La Sardegna è un’isola nota per la bellezza della costa e dei mari, un posto preso d’assalto da orde di vacanzieri che, nelle calde estati, affollano ogni spiaggia a disposizione. Ma l’Isola è anche quel luogo misterioso che affonda le sue radici nella preistoria, una terra magica che affascina e cattura visitatori curiosi, disposti a inoltrarsi negli altopiani desertici che l’attraversano.
Un viaggiatore dell’altro secolo, David Herbert Lawrence, la dipinge poeticamente così: “La Sardegna è un'altra cosa: più ampia, molto più consueta, nient'affatto irregolare, ma che svanisce in lontananza. Creste di colline come brughiera, irrilevanti, che si vanno perdendo, forse, verso un gruppetto di cime... Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà stessa”.
La Sardegna è di certo tutto questo, ma è anche molto altro. Se si vuole realmente conoscere questa terra – cosa difficile anche per chi ci è nato – la si deve guardare dal di dentro, dagli occhi di quell’anima collettiva che la pervade e che ne guida ogni sospiro. La si deve osservare negli sguardi magnetici delle donne che, come schegge d’ossidiana, trafiggono i passanti narrando di un potere mai estinto, oppure dalle rughe che solcano i volti degli anziani che, seduti sulle sedie e sugli scalini del paese, raccontano i saperi di un’antica civiltà, o ancora dai guizzi selvaggi dei ragazzini che saltano i muretti in pietra delle Tanche mentre in lontananza ragliano gli asinelli.
Tutto sembra pace e serenità negli assolati altopiani, nei muti silenzi delle sugherete, nel cuore taciturno delle pietre. Eppure nelle forme dei graniti scolpite dai venti, nei tronchi flessuosi del ginepro e del lentisco, si nasconde il segreto di un popolo che emerge silenzioso urlando la sua verità contro il vento. In quest’ambiente difficile e talvolta ostile, dove il belato negli ovili svela la forza della cultura pastorale, sembra di vedere aggirarsi l’anima appassionata di Raimondo De Muro, un uomo dell’altro secolo, nato nel 1916 a Siurgus Donigala, un paesino della Trexenta di poco più di duemila anime. Era un ingegnere, trapiantato a Cagliari nel 1986, un nobile appartenente alla famiglia dei Donus, che ha dedicato ogni sua energia alla conoscenza delle tradizioni del suo paesino e della Sardegna stessa. Ha viaggiato in lungo e in largo, quando quei territori erano ancora vergini al turismo di massa, ricercando, nei racconti orali degli ultimi vecchi babbais mannus e vecchie mammais mannas rimasti, l’essenza profonda della Nuraxìa. I segreti e i riti del popolo sardo sono stati raccolti nell’arco di trent’anni e sono stati rivelati in un’opera monumentale in 6 volumi I racconti della Nuraghelogia (Is contos de sa Nuraxìa). L’opera completa consta di cinque romanzi, più un sesto libro che è una sorta di compendio di quelle che De Muro definisce “le norme di vita della Nuraghelogia”.
Cosa sia la Nuraghelogia non è facile da comprendere, si tratta, per usare le parole dello stesso De Muro, di una “sorta di 'organizzazione comunitaria', diffusa soprattutto nel mondo agro-pastorale, con proprie leggi e norme di condotta; un ordinamento sociale che, correndo parallelo alle vicende storiche 'ufficiali' dell’isola, affonda le sue radici nei millenni, risalendo fino all’epoca nuragica”. Quest’opera è pressoché introvabile, io ho avuto la fortuna di scovarla tra i libri di mio padre, anche lui donigalese. Per tanto tempo l’ho scrutata nella libreria soppesando se valesse la pena di sobbarcarmi quella recherche du temps perdu alla sarda. E così sono passati anni prima che la guaritrice Roberta Medda me ne svelasse l’importanza. Allora mi ci sono appassionatamente immersa.
Si tratta di una serie di lunghi racconti avvincenti anche nella narrazione delle storie, negli intrighi, nella particolarità dei personaggi che le interpretano, ma che hanno come vera protagonista dell’opera la saggezza dellaNuraxìa. Essa è la matrice da cui si genera ogni storia, è il filo conduttore di tutti i volumi, è quella sapienza ancestrale che De Muro vuole mettere in luce perché egli stesso desidera conoscerla. Dalla sua opera emerge che il mondo degli antichi sardi diede luogo a una civiltà pacifica e “illuminata”, basata sulla comunicazione tra gli esseri tutti e l’energia del cosmo. I nuragici erano fermamente convinti che tutti gli esseri – alberi, pietre, luoghi, animali, stelle, pianeti – fossero espressione di una coscienza, capaci quindi di comunicare tra loro, attraverso una percezione della realtà, la trance, che consentiva di accedere a quella dimensione della coscienza fuori del tempo in cui il tempo non esiste e tutti i tempi coesistono simultaneamente, tipica delle culture primitive e dello sciamanesimo.
Tra i nuragici lo stato di trance era, del resto, esperienza comune indicata con il termine “galazzoni”. I nuraghi, le tombe dei giganti, le domus de janas, i sedili scolpiti nella pietra, i menhir, gli altari di pietra, erano tutti luoghi dove ci si sdraiava con il corpo nudo a contatto con la pietra levigata per imbarcarsi nei viaggi astrali, erano dei “portali” che agevolavano la comunicazione e lo scambio con esseri di altre dimensioni e di altri sistemi stellari. I nuraghi in particolare erano delle grandi antenne in grado di favorire questo scambio finché, come raccontano i grandi padri della Sardegna, un corpo celeste centrò la terra e questa si incurvò dalla parte orientale. Perciò le antenne dei nuraghi persero per sempre la loro finalità di comunicazione con gli abitanti degli altri mondi. Racconta, infatti, De Muro di questa potenzialità: “Se vuoi avere le orecchie accese, mettiti in testa il casco con le orecchie riceventi, come facevano gli antichi, quando andavano al nuraghe per ascoltare le voci dei pianeti. Narra la storia antica che il casco con le antenne (fatto di sottili fili di rame e pelle di daino), come la protuberanza carnosa (fatta di sensibili organi riceventi) che ha la forma di un vomere, degli uomini blu sono stati ricordati con le statue di bronzo nascoste in luogo sicuro e che gli stranieri hanno interpretato per un elmo cornuto e un copricapo di ferro”.
Che sia realtà o leggenda, non importa, il mito degli uomini blu è sopravvissuto ed è arrivato fino a noi attraverso lo studioso di Donigala. Del resto la Nuraghelogia non è nemmeno oggi del tutto estinta, ma pullulano nell’isola infinite realtà che la richiamano. È diffusa l’idea che i siti megalitici della Sardegna siano “esseri vivi e coscienti (a loro modo) e non invece semplicemente delle pietre ‘morte’, delle rovine, per quanto maestose e suggestive”.
Come sostiene lo studioso Mauro Aresu, si possono “sentire questi luoghi come vivi, parlanti. Non solo i nuraghi ma anche gli alberi, gli animali, le pietre, la terra, il cielo, il vento. Ognuno di questi esseri è diverso dall'altro. Ognuno ha il suo carattere e le sue qualità. Ognuno è ansioso di porgere i suoi doni a chiunque sia disposto a riconoscerli e accettarli. Mettendosi in ascolto, con rispetto e umiltà, gradualmente la comunicazione diventa possibile e si entra in un mondo sconcertante e magico che ha molto da insegnare all'uomo di oggi. Che può aiutarlo a recuperare il benessere e l'armonia da tempo perduti”.
Questo tipo di ascolto non è ignoto agli artisti ed è il cavallo di battaglia degli artigiani del mondo della fiaba, della favola, della leggenda e del mito che mi capita spesso di frequentare. Se un affabulatore non avesse la capacità di guardare oggetti, anime e forme con gli occhi di un bambino, la fantasia sarebbe morta e l’immaginazione non tesserebbe più nuovi profili. Nella monumentale opera di De Muro emerge un’anima pronta a leggere ogni stimolo, ad ascoltare ogni palpito della vita, ad animare ogni pietra per scoprirne e svelarne il mistero. La lettura dei volumi è trascinante, gli intrecci tengono con il fiato sospeso, la complessità dei personaggi con tutte le sfumature di bene e di male che non vengono mai usate per giudicare, rendono l’opera piacevole e interessante. Lo scrittore è aperto verso una tesi e anche verso la sua antitesi, i suoi personaggi li ama sia che siano santi sia che siano assassini e le opinioni dei contadini o dei loro padroni sono contemplate da molteplici punti di vista. Ci sono dei passi poetici tra le pagine di questi libri sulla figura del pastore:
“La vita del pastore sardo è marcata dalla violenza: il vento, la pioggia, il caldo, la siccità, la volpe, l’astore, il compagno abigeatario, la Tanca con le sue muricce, il fisco del Re, dalla fine delle comunelle agro-pastorali dell’epoca nuragica, all’ager Dominus, alla legge delle chiudende, alla abolizione degli ademprivi; non ha mai avuto un attimo di tregua. Egli è vissuto per secoli, dal dominio Romano ad oggi, come una sentinella vigile, di giorno e di notte. Ogni fruscio dietro un cespuglio, di notte, poteva essere un nemico delle sue pecore, magari la volpe o peggio un ladro...”.
Sulla sensibilità necessaria per fare questo mestiere:
“Di questa natura conosce tutto: i movimenti delle stelle, della luna, del sole, delle nubi, del vento, del gelo, della siccità. Egli prevede ogni cosa in anticipo…”.
E sul carattere indomito, indipendente e poco materno della capra:
“La capra è una guerrigliera: pascolando, salta da un ramo all’altro, da un picco di roccia ad un altro, da un cespuglio di rovi ad un altro, per cui nessuna gamba di capretto potrebbe mai seguirla in quel vagabondare spericolato”.
Vi troviamo anche dei passi significativi sulla solitudine che incombe sull’uomo:
“L’universo creato è una immaginazione di quello che lo ha creato, per questo l’uomo e tutte le cose create non sono altro che dei riflessi dello specchio che sta su. Quando vive sulla terra l’uomo è solo, tutto ciò che è fuori di lui sono faccende dello specchio che ci riflette e ci inganna su quello che rivediamo o crediamo di rivedere”.
Oppure troviamo la memoria di riti ormai dimenticati come quando il Donnikellu chiede a Nonnu Mannu:
“Mi racconti della festa dei celibi, è vero che la gioventù andava, uomini e donne insieme, al ruscello e lì si spogliavano nudi per farsi il bagno e poi facevano il ballo tondo, avendo in mezzo il suonatore di canne, lo stendardo di pane giallo e il toro?”.
E Nonnu Mannu risponde:
“Era la festa più bella della Nuraghelogia con una moralità di gente pura, se non fosse di quel bastardo di cristianesimo che ha degradato il sesso ad atto impuro, oggi sarebbe una festa da prendere per esempio. La Nuraghelogia teneva nel massimo conto il rispetto dei bisogni sessuali e perciò insegnava a usare, sin da piccoli, lo strumento che la natura ha dato all’uomo e alla donna. Non c’era nulla di male ad abituare i giovani a conoscersi e a prendere godimento negli atti sessuali leciti, fatti con serietà”.
De Muro tratta ogni argomento con profondità e trasporto trascinando il lettore nelle convinzioni dei suoi personaggi o della sua protagonista principale: la Nuraxìa. I nomi dei nuraghi, la grafia, i petroglifi, la lingua degli antichi nuragici, le conversazioni in sardo (tradotte anche in italiano), la citazione dei pianeti e delle costellazioni, le norme di comportamento della Nuraxìa, i brebus, i diccius, i racconti popolari, rendono l’idea della completezza dell’ambientazione e dello studio che deve aver pervaso la vita del nostro ingegnere-scrittore.
Suggerisco la lettura dell’opera a ogni ricercatore di saggezza, ai curiosi dei viaggi della vita, ma anche all’uomo della strada che se non volesse “sciropparsi” tutti e sei i volumi, potrebbe ritrovare un’infinità di emozioni anche solo nella lettura del primo volume. La storia di Savina e Antoni Luca, di Antoni Maria e di Arremundicca, di Efisio Pes e suo figlio Nicola, della saggezza di Nonnu Mannu, della fine della Tanca de Domu, l’ultima azienda comunitaria dell’ademprivio, sono sufficienti a regalare un’immagine della Sardegna e della cultura sarda che rimane impressa nella mente molto più a lungo delle sue pur splendide spiagge. Non sarebbe così peregrina l’idea di fare di questo primo libro un film che abbia come location le belle Tanche di Fumìa, Bangiòlu, Perdaliana e Siurgus Donigala e, per rimanere “in casa”, avere Gianfranco Cabiddu alla regia e come colonna sonora le musiche di Paolo Fresu.
E… per raccontare quei muti silenzi … fiato alle trombe, Paolo!