I libri di Patrizia Boi

giovedì 10 dicembre 2015

Gremio dei Sardi - La storia -di Antonio Masia

di Patrizia Boi

Sabato 20 giugno è stato presentato a Roma, al Gremio, Casa delle Regioni, il libro di Antonio Maria Masia sulla storia del Gremio dei Sardi di Roma, un lavoro puntuale, preciso e appassionato come è emerso dai numerosi interventi che si sono succeduti nel corso della serata svoltasi sulla deliziosa terrazza di via Aldrovandi nella spettacolare cornice offerta da una falce di luna nascente e dallo sfavillio delle stelle, alla presenza di un folto pubblico, esaurite le oltre 200 sedie disponibili.
Ci ha provato una pioggia impetuosa a rovinare l’incontro, ma gli amici del Gremio, non si sono persi d’animo, hanno svolto nelle stanze interne la prima parte dell’incontro dedicato alle musiche di Ennio Porrino e poi hanno ricondotto la scena sulla terrazza per la presentazione del libro.
Ad aprire l’incontro è stata Neria De Giovanni, che ha curato la pubblicazione del libro come “Edizioni Nemapress” delineandone la preziosa veste grafica e la presentazione. È stato nei suoi panni di Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari che ha intervistato gli ospiti presenti a partire dall’autore stesso.
Antonio Casu, Direttore della Biblioteca della Camera dei Deputati e autore della prefazione dell’opera, con un sintetico ed efficace intervento ha successivamente tracciato le linee essenziali del testo stimolando la curiosità dei presenti. La cultura sarda, come tutte le altre del resto, è definita dal suo popolo, dalla sua lingua e dal suo territorio, tutti elementi cari a coloro che sono andati altrove.
Spesso noi emigrati dimentichiamo la nostra provenienza ed eventi o esperienze che ci hanno forgiato esattamente così come siamo, determinando i nostri comportamenti e la nostra essenza. A volte lo facciamo per trascuratezza, a volte perché vogliamo volgerci al futuro, a volte semplicemente perché non vogliamo sapere. Ma prima o poi, nella vita, abbiamo l’esigenza di conoscere, di andare a scavare nel profondo di noi stessi, proprio per evolvere il nostro stato o per placare la nostalgia. La ricerca spasmodica dentro di noi riguarda il nostro passato familiare ma anche l’ambiente dove ci siamo formati, gli spunti culturali che ci ha offerto, le opportunità che ci ha regalato. Si tratta quasi di un lavoro di archeologia volto a scandagliare gli strati nascosti della nostra storia personale, dei nostri incontri e delle nostre scelte, di ciò che abbiamo lasciato e di ciò che abbiamo trovato. E quando poi, una spinta interiore, una volontà di scoperta, un impulso ad abbattere il limite territoriale, ci ha condotto ad abbandonare la nostra terra per aprirci verso altri traguardi, la nostalgia risveglia laceranti ricordi e la necessità di ritornare nei luoghi della memoria per rinascere più forti. È questo bisogno che conduce noi emigrati sardi a confrontarci e a rammentare le nostre radici attraverso circoli e associazione, a ricercare una ricongiunzione culturale e territoriale.  Masia, nel suo lavoro fatto di curiosità, ordine, ricerca e catalogazione delle fonti, offre uno strumento utile al mondo dell’emigrazione, trasformandosi da storico ad appassionato scrittore, da Presidente del Gremio a emigrato e interpretando le paure, i dubbi e le aspettative di tutti noi.
Questo lo evidenziano i vari ospiti intervenuti, chiamati in causa dalle domande di Neria. Nella passerella si alternano personaggi di spicco come Mario Segni, Giovanni Nonne, Antonio Mulas, Gemma Azuni e gli attori Daniele Monachella e Ilaria Onorato che leggono alcuni passaggi fondamentali del libro.
Masia insiste sul personaggio chiave del suo saggio, il fondatore del Gremio Pasquale Marica, nativo di Sanluri, uomo colto e amante appassionato della terra di Sardegna. Grazie a quest’uomo, il cui ruolo rischiava di annegare nella dimenticanza senza il lavoro di ricerca e  ricostruzione  riportato nel libro, e a un gruppo di intellettuali, nasce il luogo di aggregazione che è la nostra associazione, che con i suoi tre filoni principali di attività (sul piano culturale il Gremio ha da sempre dato spazio, voce, canto e musica ai principali protagonisti di ogni tempo della cultura sarda in tutti i suoi aspetti, sul versante  economico-sociale promuovendo la promozione dei prodotti di eccellenza, sul piano socio-assistenziale dando in tempi in cui era particolarmente necessario il sostegno alle famiglie sarde in difficoltà, le Befane, le colonie estive per bambini, ecc.) ha raccolto dal 1948 ad oggi sardi di ogni estrazione sociale e politica, tra cui due Presidenti della Repubblica.
Dalla lettura finale fatta da Ilaria Onorato estraggo questa considerazione, da condividere in pieno come ha dimostrato il pubblico presente:
Il tutto ha rappresentato e continua a rappresentare per la cultura, la tradizione, la società e l’economia della Sardegna, una splendida vetrina, un preciso punto di
riferimento, molto stimato e sempre ben considerato, nella Città eterna.
Una storia di cui andare fieri e onorati che ha diffuso e valorizzato le eccellenze
della nostra Isola.
Ed io ne vado fiero.
Una storia che deve continuare.”
 Tutto questo è stato preceduto dall’omaggio musicale, nel corso della prima parte nelle accoglienti sale Italia e sala Roma, al Maestro Ennio Porrino, insigne compositore sardo, nato a Cagliari ai primi del novecento. Sono intervenute, sua moglie Màlgari Onnis Porrino, sceneggiatrice, bozzettista e pittrice, sua figlia Stefania docente di arte scenica e regista e il soprano  Carla Kaamini Carretti, dando voce al ricordo del grande musicista.
Al pianoforte la pianista Daniela Sabatini che ha alternato alcune suonate con un narrato interessantissimo sulla vita e le opere del grande musicista sardo, socio co-fondatore del Gremio nel 1948, purtroppo scomparso a Roma nel 1959 a soli 49 anni.
Autore di numerosi lavori fra i quali la grande opera lirica “I Shardana”, di recente ripresentata con grande successo di pubblico e di critica a Cagliari e che speriamo possa trovare spazio nel cartellone futuro dell’Opera di Roma, e numerose colonne sonore per film e sceneggiati televisivi, ricordiamo quella per “Canne al vento” dal romanzo di Grazia Deledda.
La Sabatini si è esibita, riscuotendo applausi e consenso, accompagnata per le parti cantate dal soprano, nei brani per pianoforte del Maestro Ennio Porrino: “Attitidu”, “Canzone romanesca”, “Preludio in modo religioso “Du bist Min” “Dancing”.
Sul finale la Sabatini, ha suonato per la prima volta, due sue recentissime composizioni: l’una dedicata al Maestro: “In s’ammentu – In memoriam” (A la maniere de Ennio Porrino)  e l’altra “Antiga limba” (commento musicale alla poesia in sardo dedicata da Antonio Maria Masia alla lingua sarda “Sa Limba”  che era stata  presentata dall’autore  due settimane prima, il 6 giugno, nel corso dell’evento sulle “Lingue Minoritarie”.
Una serata davvero eccezionale da non dimenticare con il “contorno” di un impareggiabile e dolcissimo tramonto romano… dopo la “tempesta”. 

I Shardana di PATRIZIA BOI

di Patrizia Boi

Il Gremio dei Sardi di Roma ha organizzato Sabato 5 dicembre 2015 presso la Sala Italia al  Palazzo Unar, in collaborazione con l’AIDE Associazione Italiani d’Egitto un incontro/dibattito con l’archeologo-sociologo Francesco Licheri sul tema“I Shardana nell’epoca Ramesside – Indicazioni storiche ed archeologiche”.L’incontro è stato preceduto da una brevissima proiezione di una intensa e coivolgente sintesi del dramma musicale in tre Atti “I Shardana – Gli uomini dei nuraghi” scritto dal Maestro Ennio Porrino e rappresentato per la prima volta al San Carlo di Napoli il 21 marzo 1959.
Il Presidente dell’AIDE, racconta che gli italiani che vivevano pacificamente in Egitto, nel 1956,  hanno dovuto lasciare il paese che era terra loro e degli avi. Per il desiderio di migliorare la propria vita e il loro avvenire avevano trovato, infatti, in quelle sponde del Mediterraneo la loro fortuna e proprio in questa avventura si potrebbe individuare il legame con il popolo de I Shardana, guerrieri estremamente capaci tanto che le loro gesta sono state immortalate nel Tempio di Karnak. NellaGrande iscrizione di Karnak, infatti, il faraone egizioMerenptahparla di “nazioni(o popoli)stranieri del mare“.
La questione de I Shardana è stata così dibattuta dagli esperti del settore che si è prestata alle più disparate interpretazioni spesso in contraddizione tra di loro. Cionondimeno l’argomento ha suscitato un grande interesse dando luogo a opere della fantasia che hanno espresso ipotesi favorevolmente accolte dall’immaginario collettivo, forse ancor più vere nel cuore della gente dei ragionevoli dibattiti degli studiosi.
L’incontro dopo una breve introduzione del presidente Masia, che ha salutato la presenza in sala della vedova del Maestro Porrino, Malgari Onnis autrice dei disegni e dei bozzetti dell’opera,  ha avuto inizio a cominciare dal citato dramma di Porrino che costituisce sicuramente una delle opere liriche più affascinanti del Novecento, tanto che uno dei maggiori esperti di etnomusicologia e letteratura popolare sarda, Felix Karlinger, la definì senza mezzi termini: «La più grande opera lirica composta in Italia in questo dopoguerra».
Porrino era nato a Cagliari nel 1910, si era affermato negli anni del fascismo, ma dopo la fine della guerra fu epurato e costretto ad accettare incarichi minori. Il maestro si è subito occupato di una accurata rielaborazione della musica popolare sarda con la sinfonia “Sardegna” (1932-1933), poi ha composto nel 1959, come detto,“I Shardana”,rappresentata al San Carlo di Napoli con ottimo successo, e, dopo un lungo silenzio,  al Teatro Lirico di Cagliari nel 2013, quest’opera che descrive una civiltà arcaica fiorita nell’Età del Bronzo sull’Isola al centro del Mediterraneo, tra riti d’iniziazione alla vita militare e battaglie per mare e per terra a difesa delle coste contro le invasioni nemiche, in uno scenario di rude bellezza dominato dalle architetture megalitiche.
È vivo in Porrino il mito delle genti dei nuraghi e la sua passione per questo tema si innalza in momenti cruciali del dramma come, ad esempio, nel cosiddetto Inno dell’isola e nella danza nuragica del primo atto o nella disperazione di Nibatta, l’archetipo della mater dolorosa, nel terzo atto, quando piange la morte del figlio Torbeno, un lamento funebre tipicamente sardo (un attittidu) cantato, però, in italiano.Lo strazio di questa madre e il dolore del padre Gonnario, culminano nel compianto delle Voci dell’Universo; poi nel finale ritorna l’armonia, l’antico regno lascia il posto al nuovo, sotto la guida salda di Norace e torna a risuonare, come all’inizio, la voce di Perdu, il pastore-guerriero che canta la Sardegna, la sua bellezza e la sua storia, il valore delle sue genti. Si tratta di una Sardegna proiettata in una preistoria mitica, tra torri di pietra e volti imperscutabili dei bronzetti, tra immagini di guerrieri e musici, re e sacerdoti, nell’incalzare dei canti e delle danze militari e nella melodia suadente e volutamente “popolare” del canto dei pastori, dove non manca la passione di due amanti in un abbandono in cui si fondono irrimediabilmente eros e thanatos.
Masia ha comunicato di aver scritto di recente all’Opera di Roma affinchè esamini la possibilità di mettere in scena “I Shardana”. Un sogno, un desiderio…da coltivare!
L’immagine de “I Shardana” ha ispirato questa e altre opere, come i romanzi storici di Leonardo Melis“I Shardana- I popoli del mare” e “I Shardana – I principi di Dan”.
Quale sia la verità su “I Shardana” è un mistero, visto che la questione è ancora incerta.
Nel corso dei decenni sono state proposte varie ipotesi, fra queste due sono quelle più ricorrenti:
I Shardana provenivano dal mediterraneo occidentale e sarebbero identificabili con lepopolazioni nuragiche della Sardegna.
I Shardana provenienti dal mediterraneo orientale, si insediarono in Sardegna a seguito della tentata invasione dell’Egitto.
Nel corso dell’incontro l’archeologo-sociologo Francesco Licheri si è occupato, come previsto,  di questo tema, attraverso un racconto dettagliato e documentato dalle fonti, sposando senza dubbio la prima ipotesi e partendo dalla considerazione fondamentale che il periodo in cui si riscontrano nel mediterraneo I Shardana coincide con quello in cui in Sardegna vivevano i popoli nuragici.
Una delle teorie più accreditate, quindi, è che “I Shardana (o Sherden)” fossero una delle popolazioni, citate dalle fonti egizie del II millennio a.C., facenti parte della coalizione dei popoli del mare; la loro presumibile identificazione con gli antichi Sardi è, al momento, oggetto di dibattito archeologico.
Nella corrispondenze occorsa fra Rib-Hadda di Biblo e il Faraone Akhenaton, “Lettere di Amarna”, databili al 1350 a.C. circa, si trova la menzione più antica del popolo Šrdn/Srdn-w, detto Shardana oSherden, descritto come un popolo di pirati e mercenari, pronti ad offrire i loro servizi ai signori locali.
Nel 1278 a.C., Ramses II sconfisse I Shardana che avevano tentato di saccheggiare le coste egiziane assieme ai Lukka (L’kkw, forse identificabili in seguito con i Lici) e i Shekelesh (Šqrsšw), in uno scontro navale lungo le coste del Mediterraneo (nei pressi del Delta Egiziano). Il Faraone, ammirandone la destrezza ed abilità nel combattere, volle successivamente arruolarli nella sua guardia personale.
Le loro continue incursioni e il pericolo costante che la loro presenza comportava per le coste egizie, sono descritti in un’iscrizione di Ramses II incisa in una stele ritrovata a Tanis: «I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli».
I Shardana sono poi citati nell’iscrizionedi Qadesh, che riporta una cronaca della battaglia omonima tra Egizi ed Ittiti, dove si legge che ben 520 Shardana furono impegnati nella difesa del Faraone. I Shardana facenti parte della guardia reale sono rappresentati con il tipico elmo cornuto, con uno scudo tondo e con la spada. È curioso ricordare che, insieme a I Shardana, Ramses utilizzava un leone addomesticato, raffigurato anche nelle pareti dei templi di Abu Simbel, come guardia personale.
Molti anni dopo, una seconda ondata di “Popoli del mare”, e tra essi anche I Shardana, venne respinta dal figlio di Ramses II, Merenptah. In seguito Ramses IIIfu impegnato in un’importante battaglia con gli stessi raffigurata presso il tempio di Medinet Habu a Tebe. In quell’occasione I Shardana sconfitti, catturati, furono arruolati nell’esercito del Faraone.
Nel papiro Harris è scritto, infatti: «I Shardana e i Wešeš del mare fu come se non esistessero, catturati tutti insieme e condotti prigionieri in Egitto, come la sabbia della spiaggia. Io li ho insediati in fortezze, legati al mio nome. Le loro classi militari erano numerose come centinaia di migliaia. Io ho assegnato a tutti loro razioni con vestiario e provvigioni dai magazzini e dai granai per ogni anno».
Queste unitamente a tante altre indicazioni da parte dell’archeologo Francesco Licheri che nello sviluppo delle sue argomentazioni ha fatto riferimento ad immagini che venivano proiettate sullo schermo e che riguardavano, stele, bassorilievi, bronzetti nuragici, navicelle, tavolette, papiri, cartine geografiche ecc.
A conclusione della presentazione e conferenza ed  anche del  vivace  dibattito sviluppatosi, si può affermare che l’ipotesi Shardana=Nuragici sia più che una ipotesi, più che un mito, più che  un sogno,  sia una realtà che, seppurein attesa di verifica definitiva da parte degli studiosi ed addetti al settore,  va a coincidere con la suggestione suggeritaci da Ennio Porrino.
E per quanto mi riguardami piace continuare, da sarda non archeologa ma semplicemente scrittrice ed innamorata della mia Terra,  su questo affascinante tema dal valore fortemente identitario riferendo i punti di vista di altri scrittori e ricercatori tutti abbastanza coincidenti con la sovrapposizione fra Shardana e Sardi Nuragici.
Il ricercatore Leonardo Melis ha teorizzato che I Shardana fossero una popolazione mesopotamica, proveniente da Ur, che si insediò in Sardegna nel III millennio a.C. Secondo Melis lo “ziggurat” di Monte d’Accoddi (SS) sarebbe una prova della presenza Shardana-mesopotamica nell’isola.
Un’altra ipotesi che lega I Shardana e la Sardegna è quella proposta da Alberto Areddu che li descrive come una popolazione di navigatori sardo-illirica. Altri elementi che vengono citati dai vari autori a favore dell’ipotesi sarda sono: la provenienza isolana de I Shardana , descritti come“il popolo delle isole che stanno in mezzo al grande verde”, la famosa iscrizione in lingua fenicia “SHRDN” incisa sulla stele di Nora e il rinvenimento di reperti nuragici quali ceramiche, utensili e lingotti nell’Egeo. La navigazione dei Sardi verso quell’area del mediterraneo è testimoniata inoltre dal mito di Talos, un gigantesco automa di bronzo invulnerabile, la cui statua vivente fu creata da Efesto perZeus,incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola, mettendo in fuga gli stranieri (e in particolare ai Sardi) che tentavano di raggiungere Creta.
Altri studiosi considerano I Shardana come una popolazione anatolica originaria della città di Sardi.
Recentemente l’archeologo sardo, Giovanni Ugas, direttore dei lavori di scavo della Tomba dei guerrieri di Decimoputzu (CA), ha rinvenuto 13 spade in rame arsenicale a lama triangolare, analoghe a quelle raffigurate nei bassorilievi egizi, datate al 1600 a.C. circa, cioè a un’epoca precedente all’apparizione deI Shardana in oriente.
Ugas ha inoltre collaborato con l’archeologo Adam Zertal il quale sostiene che il sito israeliano di El-Ahwat, che presenterebbe alcuni parallelismi con i nuraghi, sia stato edificato dai Sardi.
Un altro apparente esempio di architettura nuragica al di fuori della Sardegna, secondo Ugas ricollegabile a I Shardana,  sarebbe il pozzo sacro di Gârlo scoperto nei pressi di Sofia (anticamente Sardica) in Bulgaria.
In base a questi ritrovamenti, Ugas si è fatto propugnatore della identificazione deI Shardana con le popolazioni sardo-nuragiche, in particolare con la tribù degli Iliensi dimoranti nel centro-sud dell’isola.
In realtà, si possono riscontrare tracce della presenzade I Shardananon solo nell’ambito del Mediterraneo ma anche nell’Europa del Nord. In Irlanda e Inghilterra sono stati rinvenuti numerosi reperti riconducibili a questi antichi guerrieri. Conosciuti col nome di “Eracliti” dai Greci, I Shardanadiedero vita ad una civiltà assai evoluta. Oltre ad essere dei valenti guerrieri ed ottimi strateghi in ambito militare, sono abilissimi nella navigazione e nelle tecniche di costruzione delle navi, danno vita a strutture architettoniche complesse e sono esperti nella lavorazione del bronzo di cui custodiscono gelosamente i segreti.
Per produrre il bronzo, di cui hanno il monopolio nel Mediterraneo, usano il rame che abbonda in Sardegna ma possono trovare lo stagno solo in terre lontane. Dopo aver circumnavigato l’Africa, probabilmente  arrivano in Zimbawe, dove si racconta fossero le leggendarie miniere di re Salomone, e dove ancora oggi, accanto alla zona mineraria, esistono le grandi fortificazioni in pietra con mura e torri tronco-coniche simili ai nuraghi, che hanno dato nome alla località e poi all’intero paese: infattiZimbawe in lingua Shona vuol dire “grandi case di pietra”. Il loro simbolo principale èun labirinto, rintracciabile in numerosi reperti venuti alla luce negli ultimi decenni in Sardegna. Lo stesso simbolo è presente in molte altre località sparse in tutta Europa tra cui la cittadina di Chartres, nota per l’omonima Cattedrale. La vasta diffusione di reperti riconducibili al popolo Shardanaha dato origine a numerose leggende. Secondo un’antica tradizione furono I Shardana a costruire il complesso megalitico di Stonehenge in Inghilterra contribuendo alla nascita della tradizione druidica.
Chi non ricorda, poi, quella famosa leggenda sul popolo dei Feaci? Conclusa la guerra di Troja, Omero ci racconta il viaggio di Ulisse e descrive Skerìa, l’isola dei Feaci, che pone al centro del Grande Mare. Essa è stata spesso identificata con la Sardegna che successivamente i Greci chiameranno Sandalione Ichnussa: i Feaci sarebbero i Sardi del centro ed i Lestrigoni, giganti antropofagi, sarebbero lepopolazioni del nord della Sardegna.
Questa ipotesi è sostenuta da alcune considerazioni.
Sulla prora delle navi dei Feaci è presente la mano tesa nel saluto che troviamo anche nei bronzetti nuragici e che ancora oggi molti anziani sardi usano.
La capitale del regno di Alcinoo era una città circondata da parecchie torri e in Sardegna abbiamo ancora oggi più di 8000 nuraghi.
Nella sua reggia è descritto il focolare al centro della stanza con sedili di pietra intorno, come era nei nuraghi e nelle case sarde fino a qualche decennio fa.
La corte di Alcinoo è frequentata da Demodoco, un aedocieco, forse un autoritratto dello stesso  Omero, e ancora oggi solo in Sardegna esiste il poeta improvvisatore che si cimenta nelle gare poetiche.
In Sardegna si vive l’ospitalità come sacrae si balla il ballo tondo simile a quello praticato dai giovani Feaci.
La Regina dei Feaci, Arete, che in greco significa Virtù, haun potere immenso per essere una donna, concilia e guida la mente e il cuore delmarito che l’ascolta e l’adora. E in tutto il Mediterraneo soltanto in Sardegna si è avuta la caratteristica del matriarcato, che ancora oggi sopravvive in Barbagia.
Omero sostiene che le navi dei Feaci non hanno bisogno di timone o timoniere, ma vanno veloci e sicure nei paesi del mondo, esse viaggiano coi pensieri dell’uomo, solcano il mare e l’abisso, avvolte in una nube di vapore e nebbia. Anche le navi deI Shardana sono veloci e si muovono senza remi né rematori.
Riguardo a I Shardana, l’archeologo australiano Vere Gordon Childe nel suo libro The Bronze Age(1930), scrive: «Nei santuari nuragici e nei ripostigli troviamo una straordinaria varietà di statuette votive e modelli in bronzo. Figure di guerrieri, crude e barbariche nella loro esecuzione ma piene di vita, sono particolarmente comuni. Il guerriero era armato con un pugnale e con arco e frecce o con una spada, coperto da un elmo con due corna e uno scudo circolare. L’abbigliamento e l’equipaggiamento non lasciano dubbi sulla sostanziale identità tra i fanti sardi e i corsari e mercenari rappresentati nei monumenti egizi come “Shardana”. Allo stesso tempo numerose barchette votive, anch’esse in bronzo, dimostrano l’importanza del mare nella vita della Sardegna».
Per i sardi nuragici la divinità superiore a qualsiasi altro dio era la “Dea Madre”, diffusa in Sardegna attraverso migliaia di statuine simbolo di femminilità e maternità, che rappresenta la donna come essere in grado di procreare e quindi di creare la vita, spesso identificata anche come Madre Terrache fecondata dal sole genera il raccolto.
Il loro dio era invece il Sardus Pater, rappresentato sempre con quattro occhi e quattro braccia e con antenne o corna.Il bronzetto più famoso che lo rappresenta si trova al museo di Cagliari, ma è stato ritrovato nell’area archeologica di Teti insieme altri bronzetti.
Platone racconta che un sacerdote egizio disse a Solone che ci fu un tempo più antico in cui gli eserciti di una grande civiltà venuta dal Grande Mare Occidentale invasero il nostro mondo tutto distruggendo e solo Atene si salvò (l’invasione del 1200 a.C.). Poi identifica questa civiltà conAtlantide, ma questa è ancora un’altra storia che piace forse al giornalista sardo Sergio Frau.
Giovanni Lilliu, in merito a I Shardana, sostiene: «I secoli nei quali si svolgono le vicende dei Sherdanw e dei confederati, che vogliono espandersi per contrastare l’egemonia della potenza faraonica, sono quelli che vedono le comunità nuragiche guidate dai loro principi toccare il massimo splendore nell’architettura e sviluppare un consistente e organizzato vivere civile, economicamente prospero».
Al di là di ipotesi, verità, leggende, il tema si presta a sogni e fantasie. Non essendoci stati tramandati testi scritti ci dobbiamo affidare alle fonti, alle ipotesi sui ritrovamenti e magari all’intuito o a una fervida immaginazione… Ma io come avete potuto verificare faccio mia la suggestione e la trasformo in realtà. L’artista può…in attesa della verità scientifica.  

domenica 6 dicembre 2015

ROBERTO LUCIANI: LA PASSIONE PER L'ARTE ED IL RESTAURO

http://wsimag.com/it/architettura-e-design/18424-roberto-luciani-e-lamore-per-il-sapere

Roberto Luciani e l'amore per il sapere

Come un personaggio di Elias Canetti

Roberto Luciani
Roberto Luciani
Architetto, archeologo, critico d’arte, giornalista scientifico, Roberto Luciani è specializzato in Restauro dei Monumenti e Conservazione Architettonica presso l’International Centre for the Study of Preservation and the Restoration of Cultural Property (ICCROM). Ha curato importanti restauri monumentali di beni architettonici, archeologici, storico artistici, giardini storici ed è autore di oltre sessanta libri, pubblicati da importanti case editrici, tradotti e distribuiti anche all’estero.
La sua biblioteca privata somiglia a quella del Peter Kien dell’Auto da fé e anche la sua incrollabile passione per il libro stampato, elegantemente rilegato, monumentale nella sua bellezza, ricorda la personalità del sinologo di Canetti. Luciani, però, è una persona estremamente socievole e gentile, rispettoso dei limiti altrui, curioso di ogni argomento, innamorato della conoscenza. Rammenta quei grandi studiosi del Quattrocento che amavano circondarsi di libri, antichi e moderni, di stampe e disegni, di materiale utile per studiare i “suoi” monumenti. L’architetto non è, però, uno di quegli studiosi immobili nel tempo e nello spazio, il suo amore per l’arte italiana ed europea lo ha condotto, infatti, a visitare molti musei, siti archeologici e città italiane ed europee, risiedendo anche all’estero, in Olanda, ad Amsterdam e Rotterdam. Sarebbe troppo lungo raccontare nel dettaglio la sua vulcanica attività perché ha progettato e diretto oltre trecento restauri, ha allestito numerose mostre, catalogato monumenti, partecipato a prestigiosi convegni e conferenze.
In sintesi Luciani ha progettato importanti restauri di beni architettonici a Roma (Castel Sant’Angelo, Complesso monumentale San Michele a Ripa Grande) e in Sardegna (Chiesa di San Pantaleo di Martis, Chiesa di San Nicola di Silanis a Sedini, Forte Camicia di Palau); di beni archeologici (Domus di Pompei, Anfiteatro Flavio); di beni storico artistici (Sacra Famiglia con San Giovannino del Maestro di Ozieri, retablo di San Giorgio (sec. XVI) nella chiesa parrocchiale di Perfugas; Gruppo ligneo Deposizione della Croce (fine sec. XIII) nella chiesa di San Pietro delle Immagini di Bulzi); di giardini storici (Horti Farnesiani al Palatino).
La sua produzione scientifica è veramente consistente, avendo pubblicato oltre 300 articoli scientifici su riviste specialistiche e istituzionali e innumerevoli volumi monografici. Si tratta di exempla antichi, come libri sul Colosseo, Foro Romano, Domus Aurea, Roma Sotterranea, Acquedotti Romani, Palatino, Imperatori Romani. Ma l’architettura non è solo quella romana, è fatta di chiese e palazzi medievali, rinascimentali, barocchi e moderni. Ecco quindi che la sua ricerca si estende anche verso queste tipologie, pubblicando volumi su molte chiese romane, Santa Maria in Trastevere, San Crisogono, San Giovanni in Laterano, Santa Marta al Collegio Romano, San Sebastiano all’Appia Antica, San Policarpo, solo per citarne alcuni. Tra i palazzi di Roma ha pubblicato saggi su Palazzo Caffarelli Vidoni, Palazzo della Farnesina, Palazzo delle Assicurazioni Generali, Palazzo del Quirinale, Palazzo del Collegio Romano.
Naturalmente si è occupato in modo approfondito anche di conservazione e restauro scrivendo Il Restauro storia tecniche protagonisti, Proposte di restauro, Restauro Architettura Centri Storici, Restauro e Tutela, Il Restauro dei beni Culturali nel Lazio, Beni Culturali della Chiesa un rinnovato impegno per la loro tutela e conservazione. Non ha trascurato nemmeno l’urbanistica e lo studio di territori, come quelli di Grottaferrata, Monterotondo, Sassari. Ha curato, inoltre, monografie di architetti (Giuseppe Zander architetto, Pietro Lombardi architetto), restauratori (Dario Carnicelli restauratore), cataloghi di mostre, saggi introduttivi e prefazioni (Caravaggio e Giordano Bruno, L’agonistica greca in età romana). Come giornalista scientifico ha scritto oltre mille articoli di esclusivo interesse artistico pubblicati su quotidiani e periodici nazionali ed esteri. La diffusione della cultura ha per lui un valore etico e didattico, dirige infatti alcune collane editoriali, insegnando in alcune Università, anche Pontificie. La sua opera di maggior successo è il Colosseo (De Agostini 1993), che ha ottenuto un riconoscimento mondiale, specie nella traduzione spagnola, El Coliseo.
La cosa che contraddistingue uno studioso come Luciani e che lo differenzia dal sinologo di Canetti, è che lui non ama restare accoccolato soltanto sulla sua montagna incantata di libri, ma adora sporcarsi le scarpe nei cantieri di restauro e negli scavi archeologici, esplorare grotte e pertugi, meravigliarsi di ogni ritrovamento, scoperta, visione artistica. Pensate che nel 1991, incaricato di effettuare studi, ricerche e rilievi del complesso monastico di San Damiano in Assisi, si trasferì per alcuni mesi nel convento, dormendo in una cella e mangiando nel refettorio con i frati francescani, discutendo di teologia e di arte con il padre guardiano e gli altri fratelli, partecipando alle messe cantate pomeridiane.
Questa esperienza professionale e mistica è stata per lui fondamentale, infatti l’aspetto spirituale permea ogni sua attività. È vero che opera sovente nella sfera del sacro, ma anche laddove non abbia a che fare con chiese, monasteri, Università Pontificie, cardinali e alti prelati, si muove attraverso i vari campi della conoscenza con sacralità, conservando nei suoi occhi di sessantenne una luce di gioia e coinvolgimento infantili. Anche se sembra strano per un uomo come lui, così versato nel restauro e conservazione dell’antico, si occupa anche di arte contemporanea curando mostre con relativi cataloghi a importanti artisti come Herman Normoid e Agostino De Romanis. Ha conosciuto quest’ultimo al Ministero degli Affari Esteri dove Luciani era Coordinatore dell’Unità per la Collezione delle Opere d’Arte contemporanea della Farnesina, “Esperto” di beni culturali, curatore di importanti mostre internazionali. Alcune opere di De Romanis, infatti, facevano e tuttora fanno parte della Collezione Farnesina e Luciani ne ha favorito il lungo cammino professionale che ha portato il maestro di Velletri ad esporre le sue opere in molte parti d’Italia e del mondo, soprattutto in Indonesia.
Per la Farnesina Luciani ha curato la mostra Restoration methods and instruments of italian excellence in arts, sciences and technology che ha suscitato l’interesse di tutte le rappresentanze estere del ministero (Istituti italiani di cultura, Ambasciate, Consolati) con esposizione in importanti musei e istituzioni pubbliche. Per questo tra il 2011 e il 2015 si è stabilito di realizzare due circuitazioni parallele, quella Europea (prima esposizione a Bratislava, poi Vilnius, Riga, Minsk, Bucarest, Varsavia, Sofia) e nel contempo quella del Medio ed Estremo Oriente (prima esposizione ad Hanoi, poi Bangkok, Manila, Baghdad, New Delhi, Addis Abeba, Erbil). Altra grande mostra curata da Luciani è stata Il Palazzo della Farnesina e le sue collezioni esposta per la prima volta nel museo dell’Ara Pacis a Roma nel 2011 per poi essere esportata a Tunisi, Rabat, Algeri, Londra: vi erano in esposizione importanti opere di Afro, Campigli, Capogrossi, Depero, Dorazio, Guttuso, Levi, Mastroianni, Pistoletto, Pomodoro, Rotella ed altri e la mostra ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica con centinaia di articoli pubblicati sui maggiori quotidiani italiani ed esteri, trasmissioni televisive e radiofoniche.
Tra le chiese di cui si è occupato Luciani, merita una menzione a parte il grande volume Santa Caterina dei Funari del 2011. Si tratta di una chiesa importante, realizzata nel 1564 da Guidetto Guidetti, allievo di Michelangelo, che straordinariamente ha lasciato la sua firma incisa sul marmo del prospetto principale, con all’interno opere di Carracci, Muziano, Pulzone, Zuccari. Eretta per ospitare, insieme all’attiguo conservatorio, zitelle, ancora oggi custodisce un eccezionale patrimonio storico artistico. All’interno di essa, Luciani, ha catalogato oltre 1300 reperti. Si è trattato di un lavoro enorme per la complessità dei reperti costituiti da paramenti sacri, reliquiari, paliotti d’altare, cartegloria, messali. Dal 2012 Luciani ha iniziato il restauro di alcuni settori dell’immenso Complesso Monumentale San Michele a Ripa, tra i palazzi più grandi d’Italia con i suoi 334 metri di lunghezza, intervenendo anche nella Chiesa interna della Madonna del Buon Viaggio di Carlo Fontana anche con la progettazione del restauro di due grandi tele del XVIII e XIX secolo Transito di San Giuseppe eCristo sulla barca di Pietro e Andrea. Sull’edificio ha scritto nel 2014 due libri: Il Complesso monumentale di San Michele a Ripa Grande e La Fabbrica del San Michele, entrambi stampati dalla casa editrice dell’Ordine degli Architetti, Prospettive edizioni.
L'architetto fa parte anche della commissione costituita da tre studiosi per catalogare e studiare la Collezione d’arte pervenuta dai transatlantici dismessi e attualmente presso i depositi del San Michele. Insomma Luciani si dedica a ogni campo della conoscenza con partecipazione, curiosità, svisceramento delle fonti e delle bibliografie esistenti, un contatto diretto con la materia e tanta passione, passando da un tema all’altro come se l’oggetto di studio fosse una creatura e lo fa tuttora nonostante negli ultimi anni si sia dedicato alle sue due meravigliose gemelline. Anastasia e Angelica, due creature nate estremamente pretermine, vive per volontà divina, che riempiono la maggior parte dello spazio di Roberto e della moglie Franca, anzi è grazie alla loro abnegazione che le fanciulline, ormai quasi adolescenti, sono riuscite a far parte del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma e a cantare in importanti Opere come Werther e Turandot.
Attualmente, Luciani, continua a occuparsi di arte contemporanea lavorando a una mostra antologica dell’artista Sandro Luporini, anche noto per aver scritto i testi delle canzoni di Giorgio Gaber, che si allestirà nell’estate 2016 alle Terme di Diocleziano, prestigiosa sede della Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma che, grazie al nuovo Soprintendente architetto Francesco Prosperetti, si sta aprendo all’arte contemporanea. La Direzione Artistica dello straordinario progetto, che comprende anche Spettacoli e Conferenze, è di Philippe Daverio ed è stato promosso da Prosperetti insieme all’Archivio di Sandro Luporni e alla Fondazione Gaber su proposta sempre di Roberto Luciani a dimostrazione della sua versatilità.