I libri di Patrizia Boi

Le Storie pubblicate su Le Donne Raccontano

Le Storie di Patrizia Boi

pubblicate sulla rivista Le Donne Raccontano
Pubblicato nel Mensile Le Donne Raccontano N. 10 Marzo 2011
Vent’anni di riflessione

Mi chiamo Tatiana e sono amante dei cani. Nessuno potrebbe convincermi a separarmi dai miei levrieri e dal mio cavallo. Per tanti anni sono stati la mia unica compagnia oltre al lavoro.
È vero, convivevo con il mio compagno Edoardo, ma la sua presenza nella casa mi era diventata del tutto indifferente: sempre attaccato alle sue gioie materiali, al televisore e al computer.
Passava il tempo a fumare e a pensare a tutte le cattiverie possibili e gratuite per farmi del male. Non ha mai letto un libro che non fosse un manuale di ingegneria e non è mai voluto partire in viaggio con me, né venire al mare, in campagna, in montagna, a una cena con gli amici, a una mostra, a un incontro culturale. Eppure abbiamo condiviso lo stesso letto per tutti questi lunghi anni.
In effetti mi ero convinta che la vita fosse soddisfazione personale, successo nel lavoro, gratificazione economica e possesso di una bella casa. Non mi sfiorava l’idea di separarmi dalla mia villa con parco, non intendevo rinunciare al benessere economico e non desideravo privare i miei cani della loro oasi di pace. Avevo perfino una governante, faceva tutto lei, pensava ad ogni cosa, compreso cucinare. Inoltre avevo lottato tutti questi anni per costruire una società di progettazione, mi ero affermata, avevo un sacco di incarichi e degli ottimi guadagni. In effetti Edoardo e io avevamo raggranellato dei risparmi, un bel gruzzoletto investito in non so quali titoli. Ci aveva pensato lui, gli avevo delegato tutta la parte economica dell’attività ma anche…la mia vita.
Un paio di  anni fa poi mi sono venuti malanni di tutti i tipi, bronchiti, sinusiti, scompensi alla tiroide, una serie di fastidiosi disturbi ormonali, angoscia. Non potevo più far finta di nulla, dovevo abbattere lo stress e dedicare più tempo a me stessa.
Ho iniziato ad andare a cavallo due volte la settimana e a passeggio con i cani almeno due volte al giorno. Edoardo non lo poteva sopportare, lui non faceva nulla per stare con me, cionondimeno non voleva io facessi nulla per m stessa. È sempre stato geloso dei miei cani, del mio cavallo, dei miei spazi.
L’ufficio si trovava in una dependance della casa e quando eravamo con i nostri collaboratori non faceva altro che provocarmi per mettere in luce quello che lui faceva e quello che io non face; oppure criticava ferocemente i miei progetti e se c’era anche solo una svista mi dava dell’incapace. A casa, poi, ogni pretesto era buono per litigare, mi accusava di essere brutta e antipatica e spesso cercava di fare l’amore con me come fossi una prostituta.
Non ho mai rivelato tutto questo  a nessuno, finché non mi è capitato di conoscere Letizia, un architetto con la passione per i viaggi e la psicologia. Visto che Edoardo non si spostava mai di casa, io ho cominciato a fare qualche viaggio con Letizia. Lei è una vera viaggiatrice, si perde nei luoghi, si avventura nell’esplorazione ed è anche molto curiosa. Così ho cominciato a raccontarle tutto di me. Dopo qualche tempo, il parlare con lei mi ha aperto pian piano alla mia vita interiore e mi è tornato in mente Luca.
Ho raccontato a Letizia della mia vecchia storia con lui, del fatto che Luca mi volesse sposare e di come io lo amassi. Letizia, che tende ad approfondire tutto e a cercare una spiegazione di ogni cosa, mi fece capire che evidentemente Luca avrebbe potuto essere l’uomo della mia vita e che in realtà io lo avevo lasciato solo per paura. Secondo lei la maggior parte delle relazioni finiscono per paura o per mancanza di chiarezza. In effetti, quando mi ero messa con  Edoardo,avevo pensato che lui mi desse più certezze e che se non altro era uno un tipo deciso a concentrarsi sul lavoro e a costruire una professione come me;  mentre Luca, figlio di un ricco imprenditore, saltellava di qua e di là trasmettendomi una sensazione di instabilità e  di confusione.
C’erano dei giorni in cui spariva, dei giorni in cui aveva la luna storta e voleva stare solo con se stesso, altri momenti in cui si alterava per niente. Quando riuscivamo a stare insieme, però, mi sorprendevo a volare con lui, avvinta dalla passione e sentendomi pienamente donna.
Non ce la facevo tuttavia  a tollerare le sue incertezze, avevo bisogno di organizzare il mio lavoroe di pianificare la mia vita, ma lui si ostinava a  trascinarmi  nel suo mondo caotico e mi proponeva tutt’al più di  lavorare nella società di suo padre e di diventare una sua “ prigioniera”. Ma io mi ero liberata dei legami familiari per questo e non volevo perdere la libertà delle mie scelte.
Alla fine, anche se a malincuore perché comunque lo amavo,  lasciai Luca e diventai la donna di Edoardo, anche se  in effetti non mi sfiorò mai la passione verso di  lui, l’amore e nessuna di queste altre sciocchezze. Edoardo mi dava solo la sicurezza di poter pensare alla carriera, perché era un tipo determinato  come me.
E solo questo, infatti, ci ha unito per tutti questi anni.
Quando ho deciso di ricominciare a vivere, grazie all’apertura che mi aveva dato l’incontro con Letizia, mi venne subito in mente di cercare Luca. Per la verità, tante volte mi ero ritrovata a scrivergli una lettera o un biglietto per fargli capire il motivo delle mie scelte, per fargli sapere che era l’unico uomo che avevo amato. In realtà, al momento di firmare la lettera e di spedirla, mi sentivo stupida e finivo per non farlo.
Seppi dalla mia famiglia che Luca si era sposato, che aveva avuto una figlia e che poi si era separato dalla moglie. Ma non sapevo per quale motivo, non sapevo se avesse altre donne, non sapevo se fosse felice. 
Un mattina di primavera, mentre passeggiavo in un parco dove, ai tempi dell’università, eravamo stati spesso insieme mi è venuta una voglia matta di mettermi in contatto con lui. Senza pensarci un attimo e  ascoltando soltanto il mio istinto, a quel punto gli scrissi un biglietto e glielo lasciai nella palestra che frequentava regolarmente, come avevo saputo da un comune amico. Un gesto spontaneo, il mio, un  modo per sapere qualcosa di lui.
Quando  lo dissi a Letizia lei ne fu felice e considerò questa mia iniziativa come una volontà di cambiamento, anche se mi rifiutavo di credere che volessi cambiare qualcosa per una scelta per amore.
Accadde, però, che Luca mi rispose con evidente piacere e che cominciammo a inviarci dei messaggi via cellulare, sempre più frequenti. Dopo di che iniziammo a sentirci per telefono finché,qualche settimana dopoi, Luca mi chiese un incontro. Provai un’emozione immensa, ma per paura di essere scoperta da Edoardo, avevo deciso di rinunciare. Fu Letizia, la voce della mia coscienza, a spingermi ad andare a quell’incontro. Ci andai e da quel momento cominciammo a vederci spesso. Anche se continuavo a ripetere a me stessa che non volevo avere un’altra relazione,che desideravo avviare con Luca solo  una semplice amicizia e che non intendevo complicarmi la vita. Non volevo cedere alle follie del cuore, volevo rimanere abbarbicata come sempre ai convincimenti della ragione. In realtà stavo diventando sempre più dipendente da quei messaggi.
Oltretutto Luca, che tra l’altro mi aveva rivelato   di avere  da anni  una relazione con una donna sposata, sembrava nutrire ancora risentimento  nei miei confronti: si era sentito abbandonato da me, per giunta per uno come Edoardo, e questo gli aveva provocato una grande rabbia, mai del tutto smaltita anche se sentiva che tra di noi c’era qualcosa d’irrisolto, forse un amore non concluso.
Una volta mi mostrò la foto della sua amante, mi sentii invadere dalla gelosia. Lei era la classica donna formosa, un tipo debole e sdolcinato, mentre io sono piuttosto mentre io sono una tipa tosta e poco incline alle smancerie. Insomma, sono una donna moderna.
Sono stati mesi di trasformazione quelli. Durante i quali mi barcamenavo tra messaggi e incontri e, anche quando abbiamo cominciato a renderci conto di stare sempre meglio insieme  io mi ostinavo a negare l’evidenza.
Continuavo a ripetere che non volevo perdere nessuno dei miei beni materiali e che siccome l’amore non esiste, Edoardo o qualcun altro per me era la stessa cosa. In realtà non volevo dare voce asl mio cuore.
Con l’arrivo dell’estate, e quindi del tempo delle vacanze, arrivò anche il momento in cui  sarei dovuta partire con Edoardo.
Ma non volevo.
In realtà volevo restare con Luca, che doveva restare in città perché impegnato in  alcune ristrutturazioni.
Non sapevo cosa fare, ero confusa e stavo già per assecondare il mio solito senso del dovere quando un colloquio con Letizia mi persuase  del contrario.
Convinsi  Edoardo a partire  da solo ed ebbi così  qualche giorno di libertà.
Una volta rimasta sola, mi abbandonai completamente a me stessa e credo che se qualcuno mi avesse incontrato in quei giorni non mi avrebbe riconosciuta.
Lasciai fare alla passione, all’amore, al desiderio.
Nel giro di due settimane decisi che tutta la mia vita e quello che avevo raggiunto fino ad allora  poteva esser  messo  in discussione.
Un mese più tardi comunicai a Edoardo che lo lasciavo. Ma solo per  periodo, gli dissi, perché non intendevo perdere la villa, dividere la società, e tutte le altre  cose che avevo costruito insieme. Invece in poco tempo rinunciai alla villa, aprii un conto in banca intestato solo a me, con l’intento di versarci  i miei soldi.
Ma quando tentai di fare questa operazione, piena di timori all’idea che  Edoardo mi scoprisse, fui informata dalla banca che lui aveva giocato in Borsa la maggior parte dei nostri risparmi.
Più tardi, controllando i libri contabili,  mi accorsi chela nostra società non era affatto solida come credevo, dopo di che,  chiedendo  a un immobiliarista una  valutazione della villa, appresi che era coperta in modo tale da  ipoteche e da abusi edilizi che venderla o dividerla sarebbe stata un’impresa.
Insomma, in pochi giorni ho perso i soldi, la villa e la sicurezza del lavoro.
Non solo, ma quando raccontai a Edoardo di aver scoperto tutta la realtà della nostra situazione finanziaria, mi aggredì, mi prese a calci nella schiena e finii in ospedale con la prognosi di un mese.
Attualmente  ho messo tutto in mano a un avvocato anche perché adesso sono io che voglio dividere la società, sono io che voglio andarmene per sempre da quell’ufficio, sono io che non mi fido più di Edoardo  nemmeno come socio, sono io che voglio essere completamente libera e padrona di me stessa, per stare con Luca.
 Appena un  giorno dopo che avevo lasciato la villa, l’uomo con il quale avevo vissuto per tanti anni ci ha portato  delle prostitute e ora so che ora ci vive  con una donna che, poveraccia, ha la sola funzione di dar sfogo alle sue pulsioni sessuali.
Dal canto mio, io non mi sono pentita di aver lasciato tutto. Ho cominciato a vivere con Luca in una  casa che abbiamo preso in affitto e quando sono tra le sue braccia mi sento così ricca che tutto quello che prima consideravo una ricchezza mi sembra ora un’assurdità.
Adesso  non navighiamo nell’oro, ma stiamo cercando di costruirci una vita. E ci riusciremo.
Ha lasciato la sua amante e insieme stiamo pensando di comprarci una casetta tutta nostra.
Ogni tanto Luca mi rinfaccia di averlo lasciato tanti anni e di averlo fatto soffrire,  teme ancora  che la sua vita disordinata mi spaventi e mi spinga a fuggire come un tempo. Ma non sarà così. Oggi mi sento più matura, ho imparato a non farmi schiacciare dall’angoscia e ad accettare il modo di essere dl mio nuovo compagno. disordinato. Sono arrivata a queste conclusioni con estrema lentezza, ma solo il tempo e le vicissitudini della vita mi hanno fatto capire il vero ordine dei valori.
Quello che mi sta capitando è quanto di più bello potesse accadermi, un regalo del cielo inaspettato: avere un’altra possibilità con Luca.
Mi chiedo come mai mi ci siano voluti ben vent’anni di riflessione per comprendere infine quali fossero le priorità nella vita…
 Pubblicato nel Mensile Le Donne Raccontano N. 11 Aprile 2011
Il pittore e la ballerina

Tutto ha avuto inizio quando Anselmo, un uomo molto affascinante, affermato pittore professionista, ebbe l’idea di fermarsi in quel caffè.
Era una tiepida giornata autunnale, una pioggerellina leggera batteva sui selciati deserti di Milano. Nei giorni di festa solo i milanesi più coraggiosi rischiano i loro capelli sotto la pioggia, gli altri stanno rintanati nei loro antri, rattrappiti nelle loro noiose abitudini o guardando la televisione.
Rossella, invece, amava uscire di casa molto presto per fare una lunga passeggiata sui Navigli.
Abitava in uno di quegli appartamentini nascosti nei cortili interni del Naviglio Grande, pieno di alberi e di foglie secche appena cadute. Un mondo lontano dal traffico di Milano, quella parte fatta di silenzi e di quiete.
La sua dimora era piena di ninnoli, fiori, cappelli, argenteria, angeli, antiquariato, quadri, bauli, lumi soffusi e due magnifici gatti bianchi. Sembrava la vera casa di una fata e lei, nel suo conturbante abito candido, una principessa d’altri tempi.
Aveva camminato per due ore sotto la pioggia protetta da una mantellina bianca, i capelli abboccolati sciolti morbidamente sulle spalle, il viso umido di pioggia. Quanto fosse luminoso il suo sguardo lo sapevano tutti coloro che si fermavano ad ammirarne la linea aggraziata e l’eleganza, ma soprattutto lo seppe Anselmo, quel giorno, quando quella luce fece ingresso nel caffè.
Rossella era giovane, di una giovinezza fresca e appassionata come il suo scultoreo corpo da ballerina. Quella ragazza ingenua dalle gambe lunghe e il volto da bambina fu come una lama nel cuore di Anselmo, che si conficcò profondamente nella sua tormentata anima d’artista. Il pittore ordinò da bere per due, poi prese i bicchieri, si diresse verso Rossella e pensò:
“Sei un Inno alla Gioia anima immensa. Sei Ago di bussola per il mio smarrimento. Sei viaggio verso la Luce Universale… Più avanti c’è il giardino dell’Eden…”.
Lei lo guardò con un lampo di fuoco negli occhi, sorrise, prese il bicchiere e si chiese:
“Chi sei Signore della notte e dei sogni, Uomo del mistero e Principe dell’Aurora?”.
L’Amore scoccò la sua freccia e i due furono subito avvinti dalla passione.
Rossella, però, era tanto giovane mentre Anselmo aveva già una certa esperienza di vita. Perciò, dopo aver bevuto con lui, gli sorrise dolcemente e si congedò.
Lui avrebbe voluto rincorrerla ma si trattenne per non essere invadente, la lasciò uscire e poi si affacciò per vedere dove lei si dirigeva. Si sentiva come un cacciatore che vedeva sfuggire la sua preda, desiderava inseguirla, agguantarla, catturarla, ma di nuovo si trattenne.
La seguì da lontano e a un certo punto si accorse che si infilava in un portone, un enorme edificio antico, con una scritta scolorita che recitava “Scuola di danza”.
Quella notte Rossella non riuscì a chiudere occhio, sentiva il cuore che batteva forte forte, abbracciava i gatti e controllava continuamente l’orologio. Non vedeva l’ora che facesse giorno per fare la solita passeggiata fino al caffè.
Appena il cielo fu chiaro, fece una doccia calda per allontanare la stanchezza della notte, indossò una gonnellina corta, una maglia scarlatta e una sciarpa di seta, si pettinò e uscì.
Il sole splendeva fendendo la solita nebbia che copriva le strade della città, un uccello le volò sopra sfiorando i fili dell’autobus, una bicicletta le passò accanto come un lampo.
Rossella camminava più spedita del solito, insofferente per il lento scorrere del tempo. Aveva un sorriso sperduto nel chiarore della mattina, un soffio di vento nella chioma abbandonata sulle spalle.
Dopo il giusto tempo giunse al caffè, ma nessuno l’aspettava. Quell’uomo non era tornato a cercarla, era svanito nel nulla, un angelo di luce perduto. Un velo di delusione attraversò il suo bel viso.
Aveva ordinato una spremuta d’arancia e una crostata alla frutta sperando che lui arrivasse, temporeggiando un poco, ma alla fine era dovuta uscire. Un lamento di gabbiano accompagnò il suo passo melanconico, un rombo di motorino la irritò.
Percorse la solita strada, distratta e pensierosa, poi voltò in un vicolo diretta verso la scuola. Camminava con la faccia rivolta a terra e non si accorse di quella figura ferma, immobile, davanti alla scuola.
A un tratto alzò lo sguardo e… quell’uomo, proprio lui, era lì che l’aspettava, un mazzo di gigli bianchi in mano. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare, era spaesata. Lui si avvicinò e gli porse il mazzo di fiori sussurrando:
“Alla tua purezza di giglio…
Mi chiamo Anselmo, non ho potuto resistere e ti ho cercato…
Forse sto osando troppo, ma non ho fatto altro che pensare a te…”.
Rossella era tremante, le lacrime agli occhi per l’emozione, tese le braccia verso i fiori, li raccolse con gioia, poi strinse la mano di Anselmo dicendo a mezza voce:
“Grazie, veramente grazie… Io mi chiamo Rossella…”.
Anselmo non la volle trattenere oltre, sapeva che, probabilmente, aveva la lezione di danza. Le chiese, però, se quella sera era libera, se lo avrebbe accompagnato alla sua mostra che si inaugurava proprio quel giorno.
Questa volta, Rossella fu felice di accettare. Presero gli accordi di rito, poi lei si congedò scomparendo dietro l’ampia vetrata della scuola.
Rossella lavorava come ballerina in un teatro di periferia e faceva le prove per rappresentare la Giselle.
Non era nemmeno la protagonista, ma faceva parte del balletto in un ruolo alquanto marginale.
 Quel giorno, però, danzò con leggerezza e soavità. Le compagne si accorsero di questo e si meravigliarono per quei salti aggraziati. Il regista osservò il suo volo curioso, pensò forse a un possibile nuovo ruolo della ragazza.
Alla fine della prova Rossella si sentiva fresca come se si fosse alzata da poco e aveva negli occhi una luminosità inconsueta.
Corse a lavarsi, poi prese il suo sacchetto e andò via. Arrivò a casa in un baleno saltellando come una cerbiatta in amore. Cominciò a frugare nell’armadio per trovare una veste adatta all’occasione. Se ne provò una decina, nessuna le pareva abbastanza bella per quella circostanza. Quello era un giorno speciale, desiderava non sfigurare.
Alla fine scelse un abito avorio, svasato, leggermente scollato e con le maniche a palloncino. Preferiva mostrarsi nella sua semplicità e nel suo candore, piuttosto che in un abbigliamento più vistoso.
La sua bellezza non doveva essere aggressiva, ma spontanea e vera.
Si mise un rossetto lucido sulle labbra e un filo di matita sugli occhi. Era pronta per l’incontro, solo uno spruzzo di profumo sul collo, un fragranza del deserto che giungeva dall’Egitto.
Prima di uscire, aprì il cassetto del comò e ne estrasse una busta. Sua nonna le aveva suggerito di annotare su un foglio il suo desiderio d’amore e così lei ora rileggeva:
<<Voglio conoscere un uomo forte, capace di unire alla grande consapevolezza, alla serenità interiore e al coraggio di essere se stesso, un’enorme dolcezza. Il mio compagno di vita deve essere un uomo libero, ricco di interessi, amante dei viaggi e del viaggio della vita, capace di stare bene e in equilibrio in ogni parte del mondo e di donare e ricevere in dono l’amore profondo che unisce due esseri nell’anima, nel corpo e nello spirito.
Lo voglio con decisione e sono disposta a seguirlo dovunque lui voglia per esplorare ogni angolo di conoscenza che ci è dato di esplorare. Lo voglio amare per sempre e senza limiti. Voglio condividere con lui un progetto di famiglia nuovo, dove la libertà dell’altro è rispettata, in modo che la sua e la mia creatività non debbano soffrirne. Voglio amare l’uomo che il destino vorrà regalarmi nello scrigno di una conchiglia>>.
Le rimase impressa la conchiglia, quell’oggetto che le ricordava le lunghe camminate al mare, sulla spiaggia di Loano dove sua nonna aveva casa.
Quand’era piccola le aveva regalato una conchiglia, l’aveva pregata di sotterrarla sotto la sabbia dopo aver pensato ad un desiderio da conservare là dentro.
 Le aveva fatto credere che sarebbe poi cresciuta una pianta di conchiglie e che dentro ogni conchiglia avrebbe potuto trovare esaudito un suo desiderio.
Quella conchiglia l’aveva fatta sentire ricca e il solo pensiero della pianta che ne sarebbe nata l’aveva resa felice per un sacco di tempo. Quando poi aveva visto che la pianta non spuntava aveva protestato con sua nonna che le aveva, invece, spiegato che  quella pianta era cresciuta piena di frutti nella sua fantasia.
Questi pensieri accompagnarono il gesto di Rossella di riporre con cura nel cassetto il suo desiderio, dopo essersi distrattamente guardata allo specchio lisciando con dolcezza il pelo di un gatto.
Con l’animo colmo d’emozione si diresse verso il suo destino.
Anselmo giunse puntuale all’angolo del Naviglio Grande dove si erano dati appuntamento. Indossava un pantalone azzurro e un soffice pullover. Il suo aspetto era curato ma non eccessivamente elegante, anche lui aveva scelto la semplicità per questo primo incontro.
Anselmo ormai andava per la quarantina, mentre Rossella aveva compiuto da poco ventisei anni, ma spesso la differenza d’età non conta nulla quando si crea l’incanto dell’attrazione, della magia, del mistero.
Lui non si era ancora costruito una vita perché era stato preso dalla mania del viaggio, dallo spostarsi da un posto all’altro come un nomade per catturare l’enigma dei luoghi, della gente, dei volti.
Aveva avuto, certo, molte donne, giovani e meno giovani, ma nessuna lo aveva conquistato per molto tempo, si allontanavano tutte da quell’ideale che lui aveva pazientemente costruito e protetto dentro di sé.
Quando Rossella giunse all’appuntamento lui l’attendeva con un’orchidea in mano.
L’incontro fu coinvolgente, Rossella aveva il cuore in tumulto, Anselmo celava meglio dentro di sé la forte emozione, quasi un velo di energia avvolgeva i loro passi leggeri e gioiosi. Camminarono per la via come due adolescenti  sussurrandosi timide parole di circostanza, ma la strada fu breve perché la galleria dov’erano diretti non era lontana.
Era situata in un palazzetto d’epoca, con i balconcini aggettanti su un cortile di aceri, una vera meraviglia di caldi colori autunnali. All’ingresso un’anziana signora elegantemente abbigliata salutò con distanza il pittore e lo introdusse nelle stanze dell’esposizione non ancora aperte al pubblico. Rossella osservava incantata i soffitti lignei, la bellezza degli affreschi sui muri e si diresse verso il salone della mostra sovrappensiero.
Quando la porta della sala espositiva fu aperta, il pittore la prese per mano e la condusse all’interno mostrandole le sue tele. Non fu solo la ricchezza di colori, la delicatezza del pennello, la dimensione dei quadri che la travolse, ma un senso di misterioso turbamento le penetrò dentro il suo angelico animo da bimba.
Man mano che faceva il giro della stanza, cresceva una curiosità immensa, una domanda che le spuntava prepotente tra le labbra umide e sempre più pallide si faceva sempre più dirompente, finché non esplose in un:
“Non è possibile!”.
L’emozione era talmente alta che Rossella non riuscì più a stare ferma e continuò il giro della sala cominciando a muoversi a passo di danza. Anselmo la guardava svolazzare come una farfalla da un capo all’altro della sala, era in preda ad una follia d’amore. I suoi passi erano sempre più veloci e cominciò a volteggiare come in un ritmo magico costruito dalla musica del cuore. Ci volle del tempo prima che Rossella ritornasse sulla terra e rivolgesse di nuovo la parola al pittore. Lo fece con quel volto che hanno le donne quando sono state appena attraversate dall’estasi:
“Sono io quella modella? O hai conosciuto una donna a me gemella? Com’è possibile che tu abbia penetrato tutto il mio essere fino al più profondo del cuore? Mi sento come se ti conoscessi da sempre, come se avessi trascorso con te la vita passata nell’arco di tempo necessario alla creazione di quelle tele, ma forse anche prima, molto prima… Sono confusa…”.
“Non essere confusa, mia dolce Musa, quella del dipinto è solo una donna immaginaria, è la donna che ho sempre desiderato dentro di me. È un ideale che mi ero costruito per amare il mio lavoro, per trascorrere un tempo eterno insieme a lei e a me stesso. Comprendi perché ti ho cercato? Capisci cosa ho provato quando ti ho visto? Ero quasi fuori di me…”, rispose Anselmo.
A quel punto iniziarono ad arrivare gli invitati e Anselmo fece appena in tempo a dire:
“Non voglio più separarmi da te, o mia Musa, ora che ti sei fatta carne…”.
Rossella si sentì addosso una felicità immensa che le durò tutta la serata.
Il resto della vita ebbe i suoi alti e bassi, ma quell’unione che li aveva attratti l’uno verso l’altra fu sempre molto forte. Anselmo la condusse in un mondo fatto solo di senso, la fece sognare, godere, toccare la profondità del suo animo e questo ripagò ampiamente ogni pena che indubbiamente dovette patire. 
 Pubblicato nel Mensile Le Donne Raccontano N. 12 Giugno 2011
Nadia e il Poeta
Nadia lesse le prime poesie di Yilmaz Hocaoglu su una rivista kurda. Quelle schegge di luce, piene di soli splendenti e gioie immense, le suscitarono immagini di anime gentili, arcobaleni variopinti e voli  luminosi.
Comprò due volumi di poesie in inglese e lesse usando il vocabolario per comprenderne ogni sfumatura. S’immergeva nelle poesie di Yilmaz e colmava spirito e anima di bellezza. Con un uomo simile si sarebbe sentita al sicuro e gli avrebbe svelato gli intimi desideri che scuotevano la sua tormentata esistenza.
Il poeta era detenuto nelle carceri turche a causa delle sue poesie, veri e propri inni alla libertà del popolo kurdo. Gli scritti erano pervasi di coraggio e speranza e, anche se il dolore per l’irrisolta questione kurda, la nostalgia per la terra d’origine e l’anelito alla libertà emergevano qua e là, l’ottimismo e la voglia di lottare predominavano sugli atteggiamenti di vittimismo che di solito appartengono agli oppressi.
Nadia immaginava Yilmaz sulle montagne del Kurdistan, sognava di sostenerlo nella sua ribellione, di essere l’eroina di ogni battaglia per la liberazione di quel popolo. Si era messa in contatto con l’Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia per avere una conoscenza più profonda della questione kurda e aveva letto dei villaggi sperduti, della situazione delle donne e dei bambini, della raccolta fondi per sostenere i progetti di alfabetizzazione delle donne.
Era l’ignoranza che manteneva le donne in condizione di schiavitù, la liberazione era possibile sviluppando lo spirito critico attraverso la cultura. Ricordava le poesie di Yilmaz e lo vedeva come il paladino di tutte le donne, guerriero di luce a sostenere le loro contese. Aveva anche accolto a casa sua alcune rifugiate politiche, donne di straordinaria bellezza, che possedevano nei loro sguardi la forza misteriosa della saggezza femminile, dell’intuito, del fuoco della conoscenza primordiale.
Approfondì le conoscenze sui kurdi anche nella biblioteca dell’università dove lavorava come sociologa. Voleva sapere tutto perché aveva intenzione di mettersi in contatto con Yilmaz. Forse fu per lo slancio della sua prima lettera che lui rispose con pagine coinvolgenti, primi fiori di una fitta corrispondenza di molti mesi. Ogni giorno Yilmaz le mandava una lunga lettera per condividere le letture consumate in carcere e le sue ideologie politiche. Forse fu lo schermo posto dalla carta, forse la distanza, o l’affinità del loro spirito, che fece di quella corrispondenza un infinito amplesso letterario.
Nadia divorava le lettere di Yilmaz con un trasporto mai vissuto prima. Si scopriva ad accarezzarsi come se le mani calde di lui esplorassero il suo corpo e credeva di averlo realmente fra la seta morbida del letto che nutriva questo amore appena nato. La carta diventava un foglio di raso dove i corpi intrecciavano le anime in un abbraccio senza fine.
Dopo mesi di desiderio e di assenza, il governo turco concesse a Yilmaz di lasciare il carcere. Nadia non perse l’occasione e volò immediatamente a Istanbul. Mentre si avvicinava alla Turchia, osservava la costa frastagliata e gli innumerevoli laghi vulcanici del territorio avvolta nell’aspettativa di un futuro insolito e ricco, pieno di interessi e di gioia di vivere. Una luce intensa rallegrava l’immagine aerea di quella terra e il sole la scaldava dal finestrino colmandola di tenerezza.
Nadia era libera da legami da circa due anni, il lungo fidanzamento con Filippo era finito per totale assenza di eros e di interessi comuni.  Aveva poi tentato una relazione fisica con un collega, ma le era rimasto un tale senso di vuoto da renderla insensibile a ogni corteggiamento oppressivo da macho.
Ora lei volava verso l’Amore sempre desiderato, quello che rende gioiosa l’esistenza. In aereo, carica di aspettative, si sentiva disposta a prendere qualunque decisione per avvicinarsi a Yilmaz.
Lasciare la carriera all’università? E perché no?
Lasciare la casa? A Istanbul sarebbe vissuta benissimo.
Lasciare gli amici? Ne avrebbe trovato altri e non avrebbe perso quelli più cari, nonostante la distanza.
Lasciare la famiglia? Già la sua famiglia era lontana, in un’isola nell’Isola, lontana anni luce dalla sua vita, dai suoi sogni, dal suo essere cittadina del mondo aperta ad ogni esperienza. La vita era sua, non si sarebbe fatta condizionare dalle miopi visioni dei familiari.
Nel viso dolce di Nadia erano disegnati due espressivi occhi verdi di gatta e dal suo corpo piccolo e ben proporzionato, fasciato da abiti attillati, invece che dai soliti pantaloni preferiti dalle compagne di università, traspariva tutta la sua essenza di Donna. Chissà se Yilmaz l’avrebbe apprezzata, se sarebbe rimasto colpito dal suo aspetto e se l’immaginava proprio come era. Lei se lo figurava alto, moro di carnagione con i capelli neri mossi, gli occhi neri e impenetrabili come schegge d’ossidiana.
Mentre era assorta in questi pensieri, il comandante annunciò l’atterraggio. L’aereo sfiorò la pista con delicatezza, i passeggeri esplosero in un applauso festoso. Erano le quattro di pomeriggio, il sole splendeva, un soffice tepore si spandeva nell’aria come un alito primaverile. Nadia passò la barriera del controllo passaporti e giunse all’uscita dove una folla di gente attendeva i passeggeri. Si sentì scuotere le viscere quando lesse in uno di quei cartelli: “Yilmaz Hocaoglu”.
La vista di Yilmaz non la deluse: se non fosse stato per i capelli irti come gli aculei di un porcospino, era come se lo aspettava, ma quei capelli ribelli non tradivano lo spirito delle sue lettere. L’abbraccio di Yilmaz fu caldo, la voce un sussurro magico, la mano una vampa sul viso. Nella vecchia auto che li portò in città gli occhi di Yilmaz non si staccarono un momento dai suoi, le labbra bruciavano per l’attesa. Lui la sfiorò inavvertitamente e delicatamente si appoggiò su di lei. Poi i corpi divennero velluto, uno sull’altro come se si conoscessero da sempre.
Nadia vide i tulipani disseminati nei giardini della città, si tuffò nelle acque del Bosforo e fu impressionata dalla magnificenza del Corno d’Oro. Quando scese dall’auto era stordita come se fosse appena uscita da un incendio. Yilmaz la condusse  in un’antica casa di legno, caratteristica ottomana di Istanbul. Salutarono una giovane donna con il fazzoletto scarlatto, poi salirono in camera.
Su un letto molto basso con un enorme telo variopinto che scendeva dal soffitto erano posti un vassoio di dolci al miele e una bottiglia di rakì. Non appena furono soli, Yilmaz abbandonò le labbra sul collo di Nadia. La bocca morbida, le mani che si muovevano con grazia sulle linee sinuose del corpo di Nadia, fecero intrecciare i loro corpi per divenire un’unica forma ricostituita dopo un lungo distacco.
Nadia precipitò in uno stato in cui il tempo era evanescente e solo quella condizione le parve naturale e spontanea. Yilmaz ogni tanto si lasciava andare al sonno mentre lei restava sveglia ad accarezzargli i folti capelli. Quando si risvegliava lei gli porgeva un sorso di rakì, poi condividevano il cibo e si abbracciavano di nuovo.
Nadia  immaginava un piccolo Yilmaz ricreato come in un grembo materno e fantasticava sul loro futuro, troppo presa dalla follia amorosa per pensare alle conseguenze. Ogni tanto Yilmaz le metteva in bocca un dolce al miele o al pistacchio e dopo averne gustato qualche morso si scioglieva in tenerezza.
La prima notte Nadia era praticamente esausta, mentre Yilmaz era capace di rinascere come una Fenice. Alle cinque del mattino, Nadia crollò in un sonno pesante e si svegliò solo a mezzogiorno. Yilmaz la condusse sotto la doccia, la lavò, l’asciugò e le spalmò la pelle con un unguento profumato. A lei piaceva sentire il suo odore che sapeva dell’aroma di qualche spezia che non riusciva ad identificare.
Passato qualche giorno cominciarono a parlare come avevano fatto nelle lettere, lui leggeva le sue poesie mentre erano sdraiati sui fogli sparsi fitti di scrittura. Poi uscivano di casa e si perdevano nelle vie della città. Andarono a visitare l’Harem di Topkaki e, se non fosse stato per la gente che entrava in ogni momento, si sarebbero baciati là dentro. Condivisero la magia della cisterna sotterranea, il piacere di quelle luci soffuse, il suono dell’acqua, i brividi che provavano quando si sussurravano all’orecchio frasi d’amore. Durante la notte Yilmaz la teneva stretta tra le braccia e si addormentavano così affettuosamente vicini.
Dopo dieci giorni trascorsi in questo stato, Nadia chiese a Yilmaz chi fosse quella donna e quei due ragazzi poco più che adolescenti che vivevano al piano di sotto. Lui rispose che l’aveva sposata prima di entrare in carcere e che quelli erano i loro figli. Nadia rimase di stucco e non seppe cosa dire, le dispiacque anche di non essersi curata della loro presenza.
Alla fine delle due settimane previste, Yilmaz accompagnò Nadia in aeroporto. Nadia non fece domande e lui non la invitò a rimanere. Salì su un volo per Roma già nostalgica.
Tornata in Italia, gli scrisse le solite lettere cariche di passione, di amore, di mancanza, di dolore per l’assenza, ma non ebbe mai risposta.
Si sentiva sola, abbandonata dal sogno di questo amore, non comprendeva che cosa le stesse succedendo. La sofferenza d’amore divenne così profonda che una nausea insopportabile la coglieva al sorgere del nuovo giorno, una nausea costante e sempre più intensa. Inizialmente pensò che fosse dovuta al suo stato depressivo, ma poi si dovette render conto di essere in attesa di un bambino. Provò di nuovo a scrivere a Yilmaz, gli raccontò che sarebbe diventato padre di due gemelle, ma nemmeno stavolta ci fu risposta.
Una nuova luce nel volto fu accesa dal desiderio di partorire le figlie di Yilmaz, di forgiare due esseri con il carattere forte e dolce del padre. Ogni tanto pensava che Yilmaz non potesse risponderle perché era prigioniero, o forse era tra le montagne per combattere da guerrigliero. Allora sognava di essere con lui, di abbracciarlo, di baciarlo e si svegliava con la sensazione fisica di averlo accanto.
Le bimbe nacquero in primavera, crebbero serene e di Yilmaz si perse ogni traccia.
C’erano giorni di profonda tristezza in cui Nadia si isolava, si metteva di fronte a uno specchio e fissava il suo riflesso ripensando alle illusioni passate. Nessun uomo riusciva ad interessarla dopo Yilmaz, era come se le altre vite avessero ai suoi occhi un velo evanescente, il ricordo sempre memore della bocca morbida di Yilmaz.
A volte, quando la nostalgia era forte, Nadia riempiva la vasca da bagno e accendeva qualche incenso profumato che le ricordasse la magia di Istanbul. Poi stava ore immersa nell’acqua con lo sguardo lontano, assorta nel dolore sconfinato della perdita.
Aveva preso l’abitudine di dipingere intrecci di corpi, deliri fluidi, incendi di luci e colori. Ogni tanto si chiedeva se avesse realmente vissuto quell’esperienza o se la sua immaginazione si fosse inventata ogni cosa.
Dopo anni di solitudine e sacrificio per la crescita delle bambine, si sentì esausta.
Un bel giorno, affidò le bimbe a un’amica, comprò un biglietto aereo per Istanbul e partì.
Giunta all’Agan Hotel in Sultanahmet, lasciò la valigia in stanza e subito si diresse verso le case di legno sul Bosforo. Passeggiò perdendosi nei vicoli prima di ritrovare la casa di Yilmaz. Bussò. Le aprì un uomo ubriaco e appesantito dal cibo, i capelli radi e unti, le vesti trasandate. Nonostante l’acre odore di sudore misto ad alcool, Nadia riconobbe in quell’uomo gli occhi e la statura di Yilmaz. Lui non si rammentò di lei, lo sguardo perso in un vago ricordo che non gli tornava proprio in mente.
Nadia si sentì avvolgere dalla delusione, salutò frettolosamente sostenendo di aver sbagliato indirizzo e fuggì abbandonandosi a un pianto inconsolabile. Come poteva quell’uomo essere il poeta idealista e rivoluzionario che aveva conosciuto? Come mai era così trasandato e pieno di alcool? Cosa gli era accaduto? Aveva ceduto alle lusinghe del potere o i suoi ideali erano andati in frantumi? Camminò senza meta per quella città amata. Sospirò al profumo delle spezie dei mercati, immerse lo sguardo negli abiti colorati della gente, osservò gli sguardi dei passanti, mangiò una pannocchia per strada. Poi passeggiò lungo il Bosforo, il pensiero rivolto all’infinito di quel mare, i sensi perduti nell’abbraccio tra due mondi lontani, l’abbraccio che le aveva donato Yilmaz.
A un tratto, un dolce sorriso fece capolino sul suo viso, la colse un desiderio irrefrenabile di aprirsi alla vita, un impeto di disfarsi del passato per sorridere al futuro. Prese una monetina e la gettò in mare esprimendo un desiderio, poi ebbe un’idea geniale. Corse come una bimba e giunse sul ponte di Ataturk, frugò con ansia nella borsa e ne estrasse due libri, i libri scritti dal poeta. Al contatto con quella carta la invase una profonda calma, osservò a lungo lo specchio del mare lontano e poi, con un sorriso di soddisfazione, prese i libri, iniziò a strapparne le pagine e le lasciò cadere ad una ad una nel profondo del Bosforo. Seguì con lo sguardo i fogli che scomparivano e quando non vide più nulla, sentì un senso di grande liberazione: capì che niente era accaduto invano, pensò alla gioia, al piacere, alla condivisione, all’abbandono, alla crescita di nuove vite.
Nell’acqua lontana visualizzò gli occhi di Yilmaz, un regalo rimasto impresso per sempre nel volto delle figlie e un’immensa gioia di vivere le pervase ogni cellula.
Si voltò all’improvviso e vide che un uomo alto e moro, dal volto abbronzato e misterioso, la stava osservando da lontano.

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