I libri di Patrizia Boi

sabato 6 gennaio 2018

Buona Epifania a tutti con la Manifestazione di Madre Natura, la Personificazione Femminile dell'Anno, che festeggiamo con Neria De Giovanni

https://wsimag.com/it/cultura/34052-la-luce-non-manifestata

La luce non manifestata

Neria De Giovanni e la sua Epifania

6 GENNAIO 2018, 
L'Iperico o Erba di San Giovanni
L'Iperico o Erba di San Giovanni
Epifania in greco «ἐπιϕάνεια» significa «manifestazione» e indica l'azione che compie la divinità per manifestare la sua presenza mediante un segno, una visione, un sogno, un miracolo… La manifestazione del personaggio di Neria De Giovanni è insita nel suo nome. Neria ha origine dall’ebraico ‘Nerì’ «la mia luce» e dal suo diminutivo ‘Neriel’ «la mia luce è Dio». Il nero non è un colore senza luce, ma quello in cui ‘nessuna luce visibile raggiunge l'occhio, pur tuttavia assorbe tutta la luce di ogni colore, tant’è che la sostanza più nera che si conosca, il vantablack, assorbe il 99,965% della radiazione luminosa. Il nero rappresenta, quindi, la luce non manifestata, invisibile all’occhio umano, laddove risiede l’inconoscibile, la Materia Oscura dell’Universo e il suo Creatore. Il nero si associa anche all’inverno, Hiems, stagione come spiega Cattabiani «fredda ma non sempre grigia... che si svela soltanto a chi sa coglierla…, nella sua complessità… l’inverno trascolora dal nero al grigio, al bianco, dal nero della simbolica notte solstiziale al grigio dei primi accenni di maggiore luce e infine al bianco dell’alba stagionale che annuncia l’equinozio di primavera».
Si tratta di un periodo di «oscura e silenziosa metamorfosi» che avviene nell’‘Utero Cosmico’ della ‘Grande Madre’ che genera incessantemente la vita. Proprio all’inizio di gennaio si festeggia ‘Madre Natura’, raffigurata come «una vecchia e benevola strega a cavallo di una scopa». La Befana offre dolcetti e doni, semi da piantare nella terra gelata per farla riapparire Natura giovinetta a primavera. La ‘Vecia’ con il suo sacco di esperienza è la personificazione femminile dell’anno, nelle mani ha il fuso che simboleggia la tessitura dei destini degli uomini. Epifania è anche la ‘festa delle luci’ dove la stella cometa guida i Magi verso il bambino divino.
Questo per me è Neria, una Maga onnipresente, che viaggia dal Brasile per parlare di Grazia Deledda, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per presentare uno dei suoi libri che pubblica come ‘editora’, ad Alghero per presiedere il Premio da lei creato ‘Alghero Donna’, a Parigi per riunirsi in qualità di Presidente con l’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, a Nuoro per raccontare ai giovani dell’istituto Ciusa chi era la sua antenata Grazia. Come farebbe se non possedesse una scopa magica che la trasporta in volo ovunque tra i cieli e le nuvole? Neria è una guida che si dedica incessantemente alle Donne e ne esalta qualità e talenti, trova sempre il lato positivo di ogni vicenda, ne coglie i risvolti educativi ed edificatori, è una Grande Madre che accoglie nel suo grembo la sostanza della poesia, quell’oro prezioso intangibile dimenticato nei sottoscala dei nostri ricordi.
Quando è chiamata a parlare di qualche libro, si alza in piedi, le si illuminano gli occhi, comincia a muovere tutte le sue membra e tutto il suo corpo racconta emozioni. Anche le sue vesti parlano, comode, ampie, colorate, mai alla moda, Neria ha una sua moda personale che non copia da nessuno. A volta si presenta come una giudicessa, come quando in veste azzurra ha ritirato il Premio ‘Eleonora d’Arborea’, a volte indossa abiti pieni di fiori e di luce che le conferiscono spesso un aspetto di madre, di maga, di maestra. Tra tutti gli scritti che ha dedicato a Grazia Deledda mi piace ricordare il saggio Religiosità, fatalismo e magia in Grazia Deledda (Edizioni San Paolo, 1999) uno scritto fondamentale per comprendere il pensiero e il mondo magico della scrittrice.
Neria evidenzia le differenze tra la corrente verista di Verga e Capuana, tutta incentrata «sugli aspetti utilitaristici delle vicende» - connessi con il tema del guadagno, della proprietà, della lotta per il denaro e dell’eros portato agli estremi – e la poetica deleddiana, attenta, piuttosto, «ai rapporti morali ed etici tra gli individui» - mossi da sentimenti di amore, odio, vendetta e fede religiosa. E mette in luce anche come nella sacralità di cui sono intrisi gli scritti di Grazia, «il fatalismo si confonde con la volontà di Dio». I personaggi del mondo deleddiano arrivano a violare tutti i comandamenti e si giustificano attribuendo la responsabilità delle proprie azioni, a un destino crudele che ne altera la volontà spingendoli a macchiarsi delle peggiori colpe spesso mossi dall’amore. La protagonista di Cenere – nel film muto di Febo Mari del 1916 è impersonata da Eleonora Duse - si suicida per amore del figlio, Efix, innamorato della sua padrona in fuga – nel romanzo Canne al vento’– per proteggerla dal padre che la insegue, lo uccide, e così via.
Questa sorta di dicotomia dei personaggi della Deledda, il fatalismo che pervade ogni vicenda conducendo al peccato per volere della sorte, crea un mondo dove il bene e il male non possono essere giudicati sulla terra, ma solo dalla divina Provvidenza. Nella società agro-pastorale barbaricina, tra uomini abituati alla ‘solitudine’ delle campagne e donne costrette tra le pareti domestiche, la parola non affolla i discorsi, sono gli sguardi e i gesti che esprimono emozioni, sensazioni e amori. Ed è tutto quel substrato culturale che circonda ogni vicenda a intrecciarsi con le parole creando la narrazione. Grazia si porta dentro quel mondo magico mai estinto, che contribuisce a comunicare gli esiti dei destini individuali e collettivi in uno spazio universale e in una dimensione di tempo senza tempo: «la notte, la luna, la campagna silenziosa e, soprattutto, l’‘ozio sacro’ sono le coordinate spazio-temporali in cui avviene la fascinazione».
E solo nell’ozio sacro, così dimenticato dal nostro tempo, nel silenzio assordante dei boschi, delle campagne desolate, nelle case solitarie e negli spazi sacri delle chiese che emergono le visioni poetiche di Grazia come nel romanzo La madre: «Era un canto primitivo e monotono, antico come le prime preghiere degli uomini nelle foreste appena abitate, antico e monotono come il battere delle onde al lido solitario, ma bastò quel mormorio attorno alla sua panca nera perché Agnese avesse l’impressione di essere davvero… sbucata in faccia al mare, sulle dune fiorite di gigli selvatici e indorate dall’aurora».
Che meraviglioso potere ha il silenzio, raccoglie l’anima ed eleva lo spirito acuendo la percezione, manifestando la grandezza del ricordo e la memoria celata nell’inconscio collettivo di un popolo: «Tutti i suoi giorni solitari le sfilavano davanti, coi versi cantati dal suo popolo». Un enorme magazzino di ricordi affiorano nei personaggi della Deledda «cresciuta fra queste leggende, in un’atmosfera di grandezza che la separava dal piccolo popolo di Aar, pur lasciandola in mezzo ad esso come la perla entro la rozza conchiglia».
Grazia impara ad attingere materiale per le sue storie nella solitudine che accompagna sempre lo scrittore, la cui percezione alterata dal silenzio arricchisce il suo mondo interiore. Emergono ricordi della notte dei tempi, della cultura nuragica, dei riti antichi, delle tradizioni lontane, affiora tutto un piccolo popolo di fate, folletti ed elfi, di spiriti che gironzolano nella notte come fantasmi suscitando angosce e paure come nel romanzo Canne al vento: «agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna; e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro…».
La magia appartiene al vivere quotidiano dei suoi personaggi, pervasi della sapienza di quell’antica Sardegna che ha vissuto la grandezza della ‘nuraghelogia’ e forse della civiltà di Atlantide, dello spirito delle sacerdotesse e dei sacerdoti che camminavano tra i nuraghi, che presiedevano ai riti dell’acqua, che sapevano curare il popolo con il potere delle erbe, come nel romanzo Cenere: «Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali e amuleti». Neria rimarca l’uso farmacologico delle erbe delle ‘medichesse’ mediterranee che guarivano l’uomo nel suo complesso attraverso metodi naturali. La sapienza mitica di queste grandi maghe, poi è stata via via demonizzata dal pensiero occidentale, «fino a mutare quelle donne benefiche in streghe dal mortifero paiolo».
E qui è facile rilevare come i dogmi della Chiesa Cattolica abbiano tentato, mediante la programmazione attuata dai suoi sacerdoti, di spazzare via le credenze popolari dei sardi, tanto che tutta la letteratura della Deledda è una continua mediazione tra la cultura universale del Cristianesimo e il mondo pagano preesistente. Grazia mette in risalto l’assurdità di certi comportamenti inibitori sapientemente insinuati nelle donne della comunità religiosa come in questo brano tratto dal romanzo autobiografico Cosima- pubblicato per volere della stessa scrittrice, postumo -:«Ed ecco le due zie, le due vecchie zitelle, che non sapevano leggere e bruciavano i fogli con le figure dei peccatori e di donne maledette, precipitarsi nella casa malaugurata, spargendovi il terrore delle loro critiche e delle loro peggiori profezie».
Ecco come si era trasformata l’attitudine della divinazione delle sacerdotesse sembra ammettere Grazia, ma preferisco tornare al potere delle erbe magiche e alla poesia del paesaggio con questa citazione dal romanzo Colombi e sparvieri «andrò a cogliere l’alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi porterò un po' d’acqua… ripasserò prima di andare nel bosco; su sorge la luna lucente e bella come una sposa».
Con questa immagine della sorgente e dei fiori di iperico – la vera pianta nota come erba di San Giovanni -, non posso che collegarmi al cognome De Giovanni per raffigurare la nostra Neria nel suo abito risplendente di sole. Un sole acceso nel giallo dei fiorellini che sorridono all’Universo e curano ogni ferita dell’uomo e del cosmo. Per poter manifestare tutto il suo potere di guarigione, la pianta deve essere colta il 24 giugno da una strega che vola con la sua scopa magica proprio nel ‘Neria’ della Notte.
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Neria con gli studenti sul Monte Ortobene di Nuoro
Neria De Giovanni a una conferenza

Neria con gli studenti sul Monte Ortobene di Nuoro
L'Iperico o Erba di San Giovanni
Neria De Giovanni

Esemplari di Hypericum Perforatum

Didascalie

  1. Neria con gli studenti sul Monte Ortobene di Nuoro
  2. Neria De Giovanni a una conferenza
  3. Neria con gli studenti sul Monte Ortobene di Nuoro
  4. L'Iperico o Erba di San Giovanni
  5. Neria De Giovanni
  6. Esemplari di Hypericum Perforatum

venerdì 5 gennaio 2018

Su Tottus in Pari di Massimiliano Perlato il Documenrtario Rai Scuola su Grazia Deledda per la Regia di Alessandra Peralta

http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2018/01/05/alessandra-peralta-con-il-suo-aspetto-di-ferula-e-il-suo-cuore-di-fico-d%E2%80%99india-regista-emergente-dal-sapore-deleddiano/
immagine del documentario di Alessandra Peralta: Campanile della chiesetta pisana Galtellì
di Patrizia Boi
Quando l’anno volge al termine, il Fuoco rappresenta un passo necessario. Accendere falò, fare fiaccolate, far esplodere fuochi d’artificio, ha un duplice significato. Da un lato si configura come un rito simbolico – per dirla con Cattabiani -, per bruciare «le disgrazie, i peccati, le tragedie dell’anno che finisce» con fuochi di purificazione. Dall’altro lato questi riti erano simbolicamente ricollegati alla Rinascita del Sole, con la funzione di «aiutare a crescere il sole bambino, il sole gracile che doveva vincere l’ostilità delle tenebre invernali». Nella notte di Capodanno i botti, i tappi dello spumante conferiscono un ritmo al passaggio tra l’Anno Vecchio e l’Anno Nuovo, di simbolica Morte e Rinascita. Il Tredici è il numero del Capodanno e rappresenta il ‘rinnovamento’, la trasformazione e il mutamento fisico e iniziatico per condurci alla comunione con l’Uno.
Nelle fiabe nessuno può aprire la Tredicesima Porta senza che avvenga una trasformazione. Per questo voglio associare la Festa di Capodanno ad Alessandra Peralta, una regista emergente, anch’essa sarda come la Deledda, di un piccolo centro culturale come Nuoro, Ozieri, partita dal suo paese verso la capitale per realizzare il sogno di diventare attrice.
Alessandra è un astro nascente della poetica sarda – germogliata da quel seme piantato dall’antenata Grazia -, che apre la Tredicesima Porta con la telecamera. Riprende gli scorci del mondo creando immagini, sequenze, inquadrature che fissano l’obiettivo sulla poesia mediante il matrimonio con la musica. I suoi documentari sono «guidati dalla volontà di misurare ogni vicenda con la lente dell’anima, trasformando in emozioni e poesia gli eventi più tragici»: anche laddove la realtà sembra essere stata cruda e implacabile lei riesce a vedere un canto, una danza, un ricordo sfuocato che emerge improvvisamente dal terzo occhio. Nell’ultimo anno Alessandra ha firmato la regia di una serie di speciali per Rai Scuola su Auschwitz, Falcone e Borsellino, il Femminicidio, il Bullismo, lo Spazio, la Sicurezza Stradale, la ‘Danza Musica e Teatro’ e naturalmente sulla Deledda. Quest’ultimo speciale di Pietro De Gennaro è intitolato Come il vento che forgia le cose, autore Alessandro Greco.
Che Alessandra sia una donna sarda si comprende subito dalle prime immagini, dalle inquadrature dei paesaggi cari alla Deledda, dal trasporto con cui mette in luce il gioco tra le nuvole e il cielo, le piante che si intrecciano tra le case, che fuoriescono dalle finestre, che accompagnano le vie desolate, che spuntano nei terreni immersi nella macchia. La Regista conosce bene i discorsi del vento che sibila tra le pietre, tra i graniti rosa e quelli grigi, tra i grandi massi megalitici e le tombe disseminate ovunque. E comprende i sospiri che attraversano gli ulivi, le verdi distese argentate, i boschi di lecci e castagni, i ginepri protesi sul mare, i mirti e i lentischi colmi di bacche.
La scelta di Neria come voce narrante e come presenza scenica tra le strade deserte incorniciate di alberi, è un inserto che appartiene già al paesaggio. Mentre Neria sale sulla strada di Galtellì dando voce alla Deledda di Canne al Vento, nelle sue parole affiorano i rovi, l’euforbia e naturalmente le canne ad esprimere sensazioni e stati d’animo. I romanzi di Grazia sono disseminati di piante, di cui lei esalta caratteristiche, colori, profumi. La Sardegna è una terra selvaggia, ricca di vegetazione, di luoghi incontaminati, di fiori che crescono nei posti più impensati, nei terreni aridi, sulle spiagge, in cima alle montagne, nelle foreste più intricate. Alessandra e Neria conoscono questi luoghi, ne respirano ogni magia, li percorrono con il cuore aperto e i sensi pronti a coglierne ogni misterioso aroma, ogni sottile fruscio, ogni impercettibile sibilo di vento. Il vento fa da cornice a questo mondo colmo di pietre e sassi che si sposano con le distese selvagge di fichi d’India, di corbezzoli, di lentisco e ginepro, di frutti saporosi e profumati. E proprio le canne descrivono il popolo sardo, costantemente scosso da una natura gentile ma inesorabile, che schiaffeggia insistentemente il territorio con le sfuriate di Eolo. Spesso le piante crescono storte, riverse su un lato, come se fossero protese verso il mare, verso un baratro o in direzione dell’infinito. Gli abitanti dell’isola sono sospinti come le canne, nella direzione del vento che soffia, perché è proprio «il vento che forgia le cose», le forme delle pietre, le sagome delle montagne, i profili misteriosi degli alberi.
Roberta Deiana nel suo libro La cucina delle Janas (Blu Edizioni 2012) si prende ‘la briga e di certo il gusto’ – visto che siamo in tema di arte culinaria – di andare a cercare le citazioni di Grazia sulle piante: scopriamo novelle costellate di queste corporature vegetali, vive e vigili come elementali. Ecco, quindi, dentro la chiesa «l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnava sulle pareti come sui muri di un giardino (“Il dono di Natale”)». Sembra che questi alberi, i loro rami e i loro frutti siano protagonisti della scena, siano anzi essi stessi la scena che rappresenta il Natale.
Oppure l’arrivo della stagione primaverile, con i suoi colori e i suoi profumi viene quasi dipinto in questo passo tratto dalla novella In sartu: «Dai massi sovrapposti dell’altura piovevano grandi grappoli di rovi verdeggianti e di biancospino fiorito. Le rose canine, diafane, sfumate in colore d’ambra, olezzavano acutamente, e il ruscelletto attraversava gorgogliando il sentiero per poi sparire tra le alte ferule anch’esse fiorite…».
Sembra proprio di vederle le alte ferule, alte quanto una persona, vive e intense come eleganti fanciulle dal cappello giallo; esse passeggiano nel bosco per cercare frescura e riparo dal sole. Ma il sole risplende inesorabile in Sardegna, caldo e appagante, si riflette sui colori dei frutti, nella clorofilla delle foglie, nel luccicare delle chiome che gli sono esposte. Guardate che gioco di colori si scorge nella novella La via del male: «Una vegetazione selvaggia copriva i fianchi della valle; tra il verde cinereo dei fichi d’india e degli olivi brillava il verde smeraldino della vite, e la vitalba s’intrecciava al lentisco lucente». V’immaginate un viaggio in Sardegna senza lo sguardo sui fichi d’India? La terra ne è colma, crescono ovunque colorando ogni angolo di fuoco e spine: «L’edera e la pervinca coprivano le rocce; i sentieri appena tracciati scendevano e salivano, tra i rovi e i cespugli; macchie gigantesche di fichi d’india, dalle foglie pesanti nate le une sulle altre, incoronate di frutti e fiori d’oro, sorgevano sui ciglioni e s’arrampicavano sulle chine».
Questa è la via del male, è il calvario di spine e bellezza che ogni sardo percorre, in particolare se lascia l’isola per cercare fortuna altrove, come Grazia, Alessandra e Neria, spinte dalla passione, dalla sete di conoscenza, dalla ricerca di uno spazio più grande, più aperto, più connesso. Eppure si portano dentro l’Isola, in connessione costante con la Terra anche a distanza, come emerge da questa confessione di Grazia. «Quando cominciai a scrivere non usavo la materia che avevo a portata di mano come materia prima, per plasmare la mia opera d’arte. Se continuai a usare questo materiale per tutta la vita è perché so quel che ero quando mi formai, legata intimamente alla mia razza e la mia anima era uguale ad essa. Quando frugai in fondo all’anima dei miei personaggi, era nella mia anima che frugavo. E tutte le angustie che ho raccontato in migliaia di pagine nei miei romanzi e che tanta pena vi hanno fatto, erano i miei dolori, le mie angosce, i dubbi, le lacrime che io piansi».
Per Natalino Sapegno la scrittrice «si calava nella sua nostalgica fantasia», mentre Benedetto Croce esprime le sue riserve sul suo lirismo intriso di un certo «regionalismo sentimentale». Gli svedesi, comunque, dovettero dargli torto. Alessandra lascia correre giudizi e pregiudizi e inquadra Neria nella cucina della scrittrice, il luogo del focolare domestico, dispensatore di cibo fisico e metafisico, elemento fondamentale dell’ospitalità sarda.
Grazia era una scrittrice, abile anche nei lavori cosiddetti ‘donneschi’, tanto che cucinava personalmente dedicandosi con passione alla preparazione del cibo anche nella sua casa romana. In una lunga lettera a un suo fidanzato (Nuoro, 10 dicembre 1892), infatti, scrive: «Molti credono che io non sappia altro che scrivere… Io so e mi vanto di sapere tutto ciò che sanno le donne di casa, anzi lavoro meglio delle altre perché nei lavori donneschi, come sarebbe nei ricami e nei pizzi e in tutti i piccoli gingilli dietro cui le donne passano il tempo, io ci metto l’arte ed il gusto che esse non conoscono». Nel documentario emergono anche altri aspetti messi in luce dagli studenti del Liceo Artistico Ciusa di Nuoro, un ritratto dai toni sfumati, una Deledda diva della Pop Art, un disegno dove tra tutte le maschere Grazia viene descritta come «unica mosca bianca in un contesto fatto di perbenismo e di bigottismo» e aggiungerei anche di provincialismo.
Grazia, Alessandra, Neria, evadono dall’isola per raggiungere un mondo dove è possibile essere se stessi, esprimere i propri pensieri, indossando ogni maschera disponibile per interpretare tutte le parti che abbiamo dentro. Alessandra a teatro, ha poi scoperto sincronicamente la regia televisiva che gli ha consentito di esplorare meglio il suo mondo interiore attraverso le maschere degli altri personaggi che le scorrevano davanti.
E concludo raffigurando Alessandra come una piccola ferula slanciata, elegante nel suo grazioso cappellino chiaro, con il volto velato di pudore, che sorride soddisfatta dopo aver inquadrato il volto carico di saggezza della sua anziana Antenata. Indossa il suo mantello smeraldino, volta le spalle e cammina risoluta verso il suo altrove, mentre in petto le batte un cuore carnoso come un frutto maturo del fico d’India, pieno di spine misteriose ma rosso di passione, pronto per un Capodanno di Fuoco.

martedì 2 gennaio 2018

Sul Portale Letterario di Neria De Giovanni

Mercoledì, 27 Dicembre 2017 (S. Giovanni apostolo)



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PATRIZIA BOI, A NATALE CON GRAZIA DELEDDA

27/12/2017, 16:35

Grazia Deledda
wsimag.com del 25 dicembre ci ha portato una bella sorpresa.
Patrizia Boi, scrittrice di romanzi, racconti, fiabe, favole e storie per l'infanzia, dedica il suo articolo di Natale a Grazia Deledda. Loi fa con delicatezza ed entusiasmo, con accurata informazione e slancio nuovo di interpretazione. La nostra scrtittrice è ritratta per la sua grande capacità di raggiungere gli obiettivi della propria vita, sconfiggendo un destino che sembrava segnato: stare tutta la vita a Nuoro, paese allora di sei mila abitanti, far figli e lavorare in silenzio per tutta la famiglia..
Invece lei : (sono parole di Patrizia Boi) "Senza nulla togliere alla grandezza delle femministe più accese e accanite – delle cui battaglie abbiamo beneficiato tutte noi -, potrei riflettere sul modo di lottare di Grazia. La sua battaglia l’ha fatta con la penna, ha spedito lettere a tutti, scrittori ed editori, politici e governanti, intellettuali e artisti; anche quando pareva impossibile che fosse ascoltata, lei, una giovane fanciulla che aveva frequentato solo la quarta elementare, non si è mai arresa."
Autrice del romanzo "Donne allo specchio" Mef Firenze, della raccolta di Fiabe "Storie di Magia" Happy Art Edizioni Milano, del volume LegenΔe di Piante - Nostra Protezione ed equilibrio in terra (una raccolta di 12 leggende sulle piante ambientate nei dodici mesi dell’anno) pubblicato a puntate nel 2014 su Wall Street International Magazine, patrizia Boi nel giugno 2017 ha pubblicato per la Collana I Cortili della Casa Editrice dei Merangoli, il Saggio Ingegneria Elevato n - Ingegneria del Futuro o Futuro dell’Ingegneria?, scritto a quattro mani con suo fratello Maurizio Boi, con 150 Immagini Colore/BN del fotografo Sergio Pessolano di cuoi abbiamo dato riscontro sul portaleletterario.net con un bell'articolo di Luisa Saba.
Per capodanno e l'Epifania Patrizia Boi pubblicherà due articoli su altre due donne, attendiamo ma, ulteriore regalo di Natale, i nomi li ha già annunciati nel primo articolo, quello per Natale, su Grazia Deledda.
Li ripeto?
" Quest’anno voglio onorare le feste dedicandole a un trio di donne unite da un destino comune: Grazia Deledda (Natale), Alessandra Peralta (Capodanno) e Neria De Giovanni (Epifania). La sincronicità le ha messe in contatto nel settembre 2017 in occasione dell’Anniversario dell’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura (1926) alla Nostra Grande Antenata."
Nel mio prossimo intervento vi spiegherò perchè i nostri tre nomi sono accomunati... per ora: buona Lettura di Patrizia Boi e BUON ANNO!
https://wsimag.com/it/cultura/34048-dicembre-mese-del-nobel
NERIA DE GIOVANNI

domenica 31 dicembre 2017

Capodanno di Fuoco: Alessandra Peralta con il suo aspetto di Ferula e il suo cuore di Fico d'India


https://wsimag.com/it/cultura/34049-capodanno-tutto-un-fuoco

Capodanno, tutto un Fuoco

La poetessa Alessandra Peralta

31 DICEMBRE 2017, 
 
Canne metalliche a Galte
Canne metalliche a Galte
Quando l’anno volge al termine, il Fuoco rappresenta un passo necessario. Accendere falò, fare fiaccolate, far esplodere fuochi d’artificio, ha un duplice significato. Da un lato si configura come un rito simbolico - per dirla con Cattabiani -, per bruciare «le disgrazie, i peccati, le tragedie dell’anno che finisce» con fuochi di purificazione. Dall’altro lato questi riti erano simbolicamente ricollegati alla Rinascita del Sole, con la funzione di «aiutare a crescere il sole bambino, il sole gracile che doveva vincere l’ostilità delle tenebre invernali». Nella notte di Capodanno i botti, i tappi dello spumante conferiscono un ritmo al passaggio tra l’Anno Vecchio e l’Anno Nuovo, di simbolica Morte e Rinascita. Il Tredici è il numero del Capodanno e rappresenta il ‘rinnovamento’, la trasformazione e il mutamento fisico e iniziatico per condurci alla comunione con l’Uno.
Nelle fiabe nessuno può aprire la Tredicesima Porta senza che avvenga una trasformazione. Per questo voglio associare la Festa di Capodanno ad Alessandra Peralta, una regista emergente, anch’essa sarda come la Deledda, di un piccolo centro culturale come Nuoro, Ozieri, partita dal suo paese verso la capitale per realizzare il sogno di diventare attrice.
Alessandra è un astro nascente della poetica sarda - germogliata da quel seme piantato dall’antenata Grazia -, che apre la Tredicesima Porta con la telecamera. Riprende gli scorci del mondo creando immagini, sequenze, inquadrature che fissano l’obiettivo sulla poesia mediante il matrimonio con la musica. I suoi documentari sono «guidati dalla volontà di misurare ogni vicenda con la lente dell’anima, trasformando in emozioni e poesia gli eventi più tragici»: anche laddove la realtà sembra essere stata cruda e implacabile lei riesce a vedere un canto, una danza, un ricordo sfuocato che emerge improvvisamente dal terzo occhio. Nell’ultimo anno Alessandra ha firmato la regia di una serie di speciali per Rai Scuola su Auschwitz, Falcone e Borsellino, il Femminicidio, il Bullismo, lo Spazio, la Sicurezza Stradale, la ‘Danza Musica e Teatro’ e naturalmente sulla Deledda. Quest’ultimo speciale di Pietro De Gennaro è intitolato Come il vento che forgia le cose, autore Alessandro Greco.
Che Alessandra sia una donna sarda si comprende subito dalle prime immagini, dalle inquadrature dei paesaggi cari alla Deledda, dal trasporto con cui mette in luce il gioco tra le nuvole e il cielo, le piante che si intrecciano tra le case, che fuoriescono dalle finestre, che accompagnano le vie desolate, che spuntano nei terreni immersi nella macchia. La Regista conosce bene i discorsi del vento che sibila tra le pietre, tra i graniti rosa e quelli grigi, tra i grandi massi megalitici e le tombe disseminate ovunque. E comprende i sospiri che attraversano gli ulivi, le verdi distese argentate, i boschi di lecci e castagni, i ginepri protesi sul mare, i mirti e i lentischi colmi di bacche.
La scelta di Neria come voce narrante e come presenza scenica tra le strade deserte incorniciate di alberi, è un inserto che appartiene già al paesaggio. Mentre Neria sale sulla strada di Galtellì dando voce alla Deledda di Canne al Vento, nelle sue parole affiorano i rovi, l’euforbia e naturalmente le canne ad esprimere sensazioni e stati d’animo. I romanzi di Grazia sono disseminati di piante, di cui lei esalta caratteristiche, colori, profumi. La Sardegna è una terra selvaggia, ricca di vegetazione, di luoghi incontaminati, di fiori che crescono nei posti più impensati, nei terreni aridi, sulle spiagge, in cima alle montagne, nelle foreste più intricate. Alessandra e Neria conoscono questi luoghi, ne respirano ogni magia, li percorrono con il cuore aperto e i sensi pronti a coglierne ogni misterioso aroma, ogni sottile fruscio, ogni impercettibile sibilo di vento. Il vento fa da cornice a questo mondo colmo di pietre e sassi che si sposano con le distese selvagge di fichi d’India, di corbezzoli, di lentisco e ginepro, di frutti saporosi e profumati. E proprio le canne descrivono il popolo sardo, costantemente scosso da una natura gentile ma inesorabile, che schiaffeggia insistentemente il territorio con le sfuriate di Eolo. Spesso le piante crescono storte, riverse su un lato, come se fossero protese verso il mare, verso un baratro o in direzione dell’infinito. Gli abitanti dell’isola sono sospinti come le canne, nella direzione del vento che soffia, perché è proprio «il vento che forgia le cose», le forme delle pietre, le sagome delle montagne, i profili misteriosi degli alberi.
Roberta Deiana nel suo libro La cucina delle Janas (Blu Edizioni 2012) si prende ‘la briga e di certo il gusto’ – visto che siamo in tema di arte culinaria – di andare a cercare le citazioni di Grazia sulle piante: scopriamo novelle costellate di queste corporature vegetali, vive e vigili come elementali. Ecco, quindi, dentro la chiesa «l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnava sulle pareti come sui muri di un giardino (“Il dono di Natale”)». Sembra che questi alberi, i loro rami e i loro frutti siano protagonisti della scena, siano anzi essi stessi la scena che rappresenta il Natale.
Oppure l’arrivo della stagione primaverile, con i suoi colori e i suoi profumi viene quasi dipinto in questo passo tratto dalla novella In sartu: «Dai massi sovrapposti dell’altura piovevano grandi grappoli di rovi verdeggianti e di biancospino fiorito. Le rose canine, diafane, sfumate in colore d’ambra, olezzavano acutamente, e il ruscelletto attraversava gorgogliando il sentiero per poi sparire tra le alte ferule anch’esse fiorite…».
Sembra proprio di vederle le alte ferule, alte quanto una persona, vive e intense come eleganti fanciulle dal cappello giallo; esse passeggiano nel bosco per cercare frescura e riparo dal sole. Ma il sole risplende inesorabile in Sardegna, caldo e appagante, si riflette sui colori dei frutti, nella clorofilla delle foglie, nel luccicare delle chiome che gli sono esposte. Guardate che gioco di colori si scorge nella novella La via del male: «Una vegetazione selvaggia copriva i fianchi della valle; tra il verde cinereo dei fichi d’india e degli olivi brillava il verde smeraldino della vite, e la vitalba s’intrecciava al lentisco lucente». V’immaginate un viaggio in Sardegna senza lo sguardo sui fichi d’India? La terra ne è colma, crescono ovunque colorando ogni angolo di fuoco e spine: «L’edera e la pervinca coprivano le rocce; i sentieri appena tracciati scendevano e salivano, tra i rovi e i cespugli; macchie gigantesche di fichi d’india, dalle foglie pesanti nate le une sulle altre, incoronate di frutti e fiori d’oro, sorgevano sui ciglioni e s’arrampicavano sulle chine».
Questa è la via del male, è il calvario di spine e bellezza che ogni sardo percorre, in particolare se lascia l’isola per cercare fortuna altrove, come Grazia, Alessandra e Neria, spinte dalla passione, dalla sete di conoscenza, dalla ricerca di uno spazio più grande, più aperto, più connesso. Eppure si portano dentro l’Isola, in connessione costante con la Terra anche a distanza, come emerge da questa confessione di Grazia. «Quando cominciai a scrivere non usavo la materia che avevo a portata di mano come materia prima, per plasmare la mia opera d’arte. Se continuai a usare questo materiale per tutta la vita è perché so quel che ero quando mi formai, legata intimamente alla mia razza e la mia anima era uguale ad essa. Quando frugai in fondo all’anima dei miei personaggi, era nella mia anima che frugavo. E tutte le angustie che ho raccontato in migliaia di pagine nei miei romanzi e che tanta pena vi hanno fatto, erano i miei dolori, le mie angosce, i dubbi, le lacrime che io piansi».
Per Natalino Sapegno la scrittrice «si calava nella sua nostalgica fantasia», mentre Benedetto Croce esprime le sue riserve sul suo lirismo intriso di un certo «regionalismo sentimentale». Gli svedesi, comunque, dovettero dargli torto. Alessandra lascia correre giudizi e pregiudizi e inquadra Neria nella cucina della scrittrice, il luogo del focolare domestico, dispensatore di cibo fisico e metafisico, elemento fondamentale dell’ospitalità sarda.
Grazia era una scrittrice, abile anche nei lavori cosiddetti ‘donneschi’, tanto che cucinava personalmente dedicandosi con passione alla preparazione del cibo anche nella sua casa romana. In una lunga lettera a un suo fidanzato (Nuoro, 10 dicembre 1892), infatti, scrive: «Molti credono che io non sappia altro che scrivere… Io so e mi vanto di sapere tutto ciò che sanno le donne di casa, anzi lavoro meglio delle altre perché nei lavori donneschi, come sarebbe nei ricami e nei pizzi e in tutti i piccoli gingilli dietro cui le donne passano il tempo, io ci metto l’arte ed il gusto che esse non conoscono». Nel documentario emergono anche altri aspetti messi in luce dagli studenti del Liceo Artistico Ciusa di Nuoro, un ritratto dai toni sfumati, una Deledda diva della Pop Art, un disegno dove tra tutte le maschere Grazia viene descritta come «unica mosca bianca in un contesto fatto di perbenismo e di bigottismo» e aggiungerei anche di provincialismo.
Grazia, Alessandra, Neria, evadono dall’isola per raggiungere un mondo dove è possibile essere se stessi, esprimere i propri pensieri, indossando ogni maschera disponibile per interpretare tutte le parti che abbiamo dentro. Alessandra a teatro, ha poi scoperto sincronicamente la regia televisiva che gli ha consentito di esplorare meglio il suo mondo interiore attraverso le maschere degli altri personaggi che le scorrevano davanti.
E concludo raffigurando Alessandra come una piccola ferula slanciata, elegante nel suo grazioso cappellino chiaro, con il volto velato di pudore, che sorride soddisfatta dopo aver inquadrato il volto carico di saggezza della sua anziana Antenata. Indossa il suo mantello smeraldino, volta le spalle e cammina risoluta verso il suo altrove, mentre in petto le batte un cuore carnoso come un frutto maturo del fico d’India, pieno di spine misteriose ma rosso di passione, pronto per un Capodanno di Fuoco.
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Cattedrale di Galtellì
Brocche nella casa natale di Grazia Deledda

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  1. Cattedrale di Galtellì
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