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La luce non manifestata
Neria De Giovanni e la sua Epifania
Epifania in greco «ἐπιϕάνεια» significa «manifestazione» e indica l'azione che compie la divinità per manifestare la sua presenza mediante un segno, una visione, un sogno, un miracolo… La manifestazione del personaggio di Neria De Giovanni è insita nel suo nome. Neria ha origine dall’ebraico ‘Nerì’ «la mia luce» e dal suo diminutivo ‘Neriel’ «la mia luce è Dio». Il nero non è un colore senza luce, ma quello in cui ‘nessuna luce visibile raggiunge l'occhio, pur tuttavia assorbe tutta la luce di ogni colore, tant’è che la sostanza più nera che si conosca, il vantablack, assorbe il 99,965% della radiazione luminosa. Il nero rappresenta, quindi, la luce non manifestata, invisibile all’occhio umano, laddove risiede l’inconoscibile, la Materia Oscura dell’Universo e il suo Creatore. Il nero si associa anche all’inverno, Hiems, stagione come spiega Cattabiani «fredda ma non sempre grigia... che si svela soltanto a chi sa coglierla…, nella sua complessità… l’inverno trascolora dal nero al grigio, al bianco, dal nero della simbolica notte solstiziale al grigio dei primi accenni di maggiore luce e infine al bianco dell’alba stagionale che annuncia l’equinozio di primavera».
Si tratta di un periodo di «oscura e silenziosa metamorfosi» che avviene nell’‘Utero Cosmico’ della ‘Grande Madre’ che genera incessantemente la vita. Proprio all’inizio di gennaio si festeggia ‘Madre Natura’, raffigurata come «una vecchia e benevola strega a cavallo di una scopa». La Befana offre dolcetti e doni, semi da piantare nella terra gelata per farla riapparire Natura giovinetta a primavera. La ‘Vecia’ con il suo sacco di esperienza è la personificazione femminile dell’anno, nelle mani ha il fuso che simboleggia la tessitura dei destini degli uomini. Epifania è anche la ‘festa delle luci’ dove la stella cometa guida i Magi verso il bambino divino.
Questo per me è Neria, una Maga onnipresente, che viaggia dal Brasile per parlare di Grazia Deledda, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per presentare uno dei suoi libri che pubblica come ‘editora’, ad Alghero per presiedere il Premio da lei creato ‘Alghero Donna’, a Parigi per riunirsi in qualità di Presidente con l’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, a Nuoro per raccontare ai giovani dell’istituto Ciusa chi era la sua antenata Grazia. Come farebbe se non possedesse una scopa magica che la trasporta in volo ovunque tra i cieli e le nuvole? Neria è una guida che si dedica incessantemente alle Donne e ne esalta qualità e talenti, trova sempre il lato positivo di ogni vicenda, ne coglie i risvolti educativi ed edificatori, è una Grande Madre che accoglie nel suo grembo la sostanza della poesia, quell’oro prezioso intangibile dimenticato nei sottoscala dei nostri ricordi.
Quando è chiamata a parlare di qualche libro, si alza in piedi, le si illuminano gli occhi, comincia a muovere tutte le sue membra e tutto il suo corpo racconta emozioni. Anche le sue vesti parlano, comode, ampie, colorate, mai alla moda, Neria ha una sua moda personale che non copia da nessuno. A volta si presenta come una giudicessa, come quando in veste azzurra ha ritirato il Premio ‘Eleonora d’Arborea’, a volte indossa abiti pieni di fiori e di luce che le conferiscono spesso un aspetto di madre, di maga, di maestra. Tra tutti gli scritti che ha dedicato a Grazia Deledda mi piace ricordare il saggio Religiosità, fatalismo e magia in Grazia Deledda (Edizioni San Paolo, 1999) uno scritto fondamentale per comprendere il pensiero e il mondo magico della scrittrice.
Neria evidenzia le differenze tra la corrente verista di Verga e Capuana, tutta incentrata «sugli aspetti utilitaristici delle vicende» - connessi con il tema del guadagno, della proprietà, della lotta per il denaro e dell’eros portato agli estremi – e la poetica deleddiana, attenta, piuttosto, «ai rapporti morali ed etici tra gli individui» - mossi da sentimenti di amore, odio, vendetta e fede religiosa. E mette in luce anche come nella sacralità di cui sono intrisi gli scritti di Grazia, «il fatalismo si confonde con la volontà di Dio». I personaggi del mondo deleddiano arrivano a violare tutti i comandamenti e si giustificano attribuendo la responsabilità delle proprie azioni, a un destino crudele che ne altera la volontà spingendoli a macchiarsi delle peggiori colpe spesso mossi dall’amore. La protagonista di Cenere – nel film muto di Febo Mari del 1916 è impersonata da Eleonora Duse - si suicida per amore del figlio, Efix, innamorato della sua padrona in fuga – nel romanzo Canne al vento’– per proteggerla dal padre che la insegue, lo uccide, e così via.
Questa sorta di dicotomia dei personaggi della Deledda, il fatalismo che pervade ogni vicenda conducendo al peccato per volere della sorte, crea un mondo dove il bene e il male non possono essere giudicati sulla terra, ma solo dalla divina Provvidenza. Nella società agro-pastorale barbaricina, tra uomini abituati alla ‘solitudine’ delle campagne e donne costrette tra le pareti domestiche, la parola non affolla i discorsi, sono gli sguardi e i gesti che esprimono emozioni, sensazioni e amori. Ed è tutto quel substrato culturale che circonda ogni vicenda a intrecciarsi con le parole creando la narrazione. Grazia si porta dentro quel mondo magico mai estinto, che contribuisce a comunicare gli esiti dei destini individuali e collettivi in uno spazio universale e in una dimensione di tempo senza tempo: «la notte, la luna, la campagna silenziosa e, soprattutto, l’‘ozio sacro’ sono le coordinate spazio-temporali in cui avviene la fascinazione».
E solo nell’ozio sacro, così dimenticato dal nostro tempo, nel silenzio assordante dei boschi, delle campagne desolate, nelle case solitarie e negli spazi sacri delle chiese che emergono le visioni poetiche di Grazia come nel romanzo La madre: «Era un canto primitivo e monotono, antico come le prime preghiere degli uomini nelle foreste appena abitate, antico e monotono come il battere delle onde al lido solitario, ma bastò quel mormorio attorno alla sua panca nera perché Agnese avesse l’impressione di essere davvero… sbucata in faccia al mare, sulle dune fiorite di gigli selvatici e indorate dall’aurora».
Che meraviglioso potere ha il silenzio, raccoglie l’anima ed eleva lo spirito acuendo la percezione, manifestando la grandezza del ricordo e la memoria celata nell’inconscio collettivo di un popolo: «Tutti i suoi giorni solitari le sfilavano davanti, coi versi cantati dal suo popolo». Un enorme magazzino di ricordi affiorano nei personaggi della Deledda «cresciuta fra queste leggende, in un’atmosfera di grandezza che la separava dal piccolo popolo di Aar, pur lasciandola in mezzo ad esso come la perla entro la rozza conchiglia».
Grazia impara ad attingere materiale per le sue storie nella solitudine che accompagna sempre lo scrittore, la cui percezione alterata dal silenzio arricchisce il suo mondo interiore. Emergono ricordi della notte dei tempi, della cultura nuragica, dei riti antichi, delle tradizioni lontane, affiora tutto un piccolo popolo di fate, folletti ed elfi, di spiriti che gironzolano nella notte come fantasmi suscitando angosce e paure come nel romanzo Canne al vento: «agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna; e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro…».
La magia appartiene al vivere quotidiano dei suoi personaggi, pervasi della sapienza di quell’antica Sardegna che ha vissuto la grandezza della ‘nuraghelogia’ e forse della civiltà di Atlantide, dello spirito delle sacerdotesse e dei sacerdoti che camminavano tra i nuraghi, che presiedevano ai riti dell’acqua, che sapevano curare il popolo con il potere delle erbe, come nel romanzo Cenere: «Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali e amuleti». Neria rimarca l’uso farmacologico delle erbe delle ‘medichesse’ mediterranee che guarivano l’uomo nel suo complesso attraverso metodi naturali. La sapienza mitica di queste grandi maghe, poi è stata via via demonizzata dal pensiero occidentale, «fino a mutare quelle donne benefiche in streghe dal mortifero paiolo».
E qui è facile rilevare come i dogmi della Chiesa Cattolica abbiano tentato, mediante la programmazione attuata dai suoi sacerdoti, di spazzare via le credenze popolari dei sardi, tanto che tutta la letteratura della Deledda è una continua mediazione tra la cultura universale del Cristianesimo e il mondo pagano preesistente. Grazia mette in risalto l’assurdità di certi comportamenti inibitori sapientemente insinuati nelle donne della comunità religiosa come in questo brano tratto dal romanzo autobiografico Cosima- pubblicato per volere della stessa scrittrice, postumo -:«Ed ecco le due zie, le due vecchie zitelle, che non sapevano leggere e bruciavano i fogli con le figure dei peccatori e di donne maledette, precipitarsi nella casa malaugurata, spargendovi il terrore delle loro critiche e delle loro peggiori profezie».
Ecco come si era trasformata l’attitudine della divinazione delle sacerdotesse sembra ammettere Grazia, ma preferisco tornare al potere delle erbe magiche e alla poesia del paesaggio con questa citazione dal romanzo Colombi e sparvieri «andrò a cogliere l’alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi porterò un po' d’acqua… ripasserò prima di andare nel bosco; su sorge la luna lucente e bella come una sposa».
Con questa immagine della sorgente e dei fiori di iperico – la vera pianta nota come erba di San Giovanni -, non posso che collegarmi al cognome De Giovanni per raffigurare la nostra Neria nel suo abito risplendente di sole. Un sole acceso nel giallo dei fiorellini che sorridono all’Universo e curano ogni ferita dell’uomo e del cosmo. Per poter manifestare tutto il suo potere di guarigione, la pianta deve essere colta il 24 giugno da una strega che vola con la sua scopa magica proprio nel ‘Neria’ della Notte.
Epifania in greco «ἐπιϕάνεια» significa «manifestazione» e indica l'azione che compie la divinità per manifestare la sua presenza mediante un segno, una visione, un sogno, un miracolo… La manifestazione del personaggio di Neria De Giovanni è insita nel suo nome. Neria ha origine dall’ebraico ‘Nerì’ «la mia luce» e dal suo diminutivo ‘Neriel’ «la mia luce è Dio». Il nero non è un colore senza luce, ma quello in cui ‘nessuna luce visibile raggiunge l'occhio, pur tuttavia assorbe tutta la luce di ogni colore, tant’è che la sostanza più nera che si conosca, il vantablack, assorbe il 99,965% della radiazione luminosa. Il nero rappresenta, quindi, la luce non manifestata, invisibile all’occhio umano, laddove risiede l’inconoscibile, la Materia Oscura dell’Universo e il suo Creatore. Il nero si associa anche all’inverno, Hiems, stagione come spiega Cattabiani «fredda ma non sempre grigia... che si svela soltanto a chi sa coglierla…, nella sua complessità… l’inverno trascolora dal nero al grigio, al bianco, dal nero della simbolica notte solstiziale al grigio dei primi accenni di maggiore luce e infine al bianco dell’alba stagionale che annuncia l’equinozio di primavera».
Si tratta di un periodo di «oscura e silenziosa metamorfosi» che avviene nell’‘Utero Cosmico’ della ‘Grande Madre’ che genera incessantemente la vita. Proprio all’inizio di gennaio si festeggia ‘Madre Natura’, raffigurata come «una vecchia e benevola strega a cavallo di una scopa». La Befana offre dolcetti e doni, semi da piantare nella terra gelata per farla riapparire Natura giovinetta a primavera. La ‘Vecia’ con il suo sacco di esperienza è la personificazione femminile dell’anno, nelle mani ha il fuso che simboleggia la tessitura dei destini degli uomini. Epifania è anche la ‘festa delle luci’ dove la stella cometa guida i Magi verso il bambino divino.
Questo per me è Neria, una Maga onnipresente, che viaggia dal Brasile per parlare di Grazia Deledda, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per presentare uno dei suoi libri che pubblica come ‘editora’, ad Alghero per presiedere il Premio da lei creato ‘Alghero Donna’, a Parigi per riunirsi in qualità di Presidente con l’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, a Nuoro per raccontare ai giovani dell’istituto Ciusa chi era la sua antenata Grazia. Come farebbe se non possedesse una scopa magica che la trasporta in volo ovunque tra i cieli e le nuvole? Neria è una guida che si dedica incessantemente alle Donne e ne esalta qualità e talenti, trova sempre il lato positivo di ogni vicenda, ne coglie i risvolti educativi ed edificatori, è una Grande Madre che accoglie nel suo grembo la sostanza della poesia, quell’oro prezioso intangibile dimenticato nei sottoscala dei nostri ricordi.
Quando è chiamata a parlare di qualche libro, si alza in piedi, le si illuminano gli occhi, comincia a muovere tutte le sue membra e tutto il suo corpo racconta emozioni. Anche le sue vesti parlano, comode, ampie, colorate, mai alla moda, Neria ha una sua moda personale che non copia da nessuno. A volta si presenta come una giudicessa, come quando in veste azzurra ha ritirato il Premio ‘Eleonora d’Arborea’, a volte indossa abiti pieni di fiori e di luce che le conferiscono spesso un aspetto di madre, di maga, di maestra. Tra tutti gli scritti che ha dedicato a Grazia Deledda mi piace ricordare il saggio Religiosità, fatalismo e magia in Grazia Deledda (Edizioni San Paolo, 1999) uno scritto fondamentale per comprendere il pensiero e il mondo magico della scrittrice.
Neria evidenzia le differenze tra la corrente verista di Verga e Capuana, tutta incentrata «sugli aspetti utilitaristici delle vicende» - connessi con il tema del guadagno, della proprietà, della lotta per il denaro e dell’eros portato agli estremi – e la poetica deleddiana, attenta, piuttosto, «ai rapporti morali ed etici tra gli individui» - mossi da sentimenti di amore, odio, vendetta e fede religiosa. E mette in luce anche come nella sacralità di cui sono intrisi gli scritti di Grazia, «il fatalismo si confonde con la volontà di Dio». I personaggi del mondo deleddiano arrivano a violare tutti i comandamenti e si giustificano attribuendo la responsabilità delle proprie azioni, a un destino crudele che ne altera la volontà spingendoli a macchiarsi delle peggiori colpe spesso mossi dall’amore. La protagonista di Cenere – nel film muto di Febo Mari del 1916 è impersonata da Eleonora Duse - si suicida per amore del figlio, Efix, innamorato della sua padrona in fuga – nel romanzo Canne al vento’– per proteggerla dal padre che la insegue, lo uccide, e così via.
Questa sorta di dicotomia dei personaggi della Deledda, il fatalismo che pervade ogni vicenda conducendo al peccato per volere della sorte, crea un mondo dove il bene e il male non possono essere giudicati sulla terra, ma solo dalla divina Provvidenza. Nella società agro-pastorale barbaricina, tra uomini abituati alla ‘solitudine’ delle campagne e donne costrette tra le pareti domestiche, la parola non affolla i discorsi, sono gli sguardi e i gesti che esprimono emozioni, sensazioni e amori. Ed è tutto quel substrato culturale che circonda ogni vicenda a intrecciarsi con le parole creando la narrazione. Grazia si porta dentro quel mondo magico mai estinto, che contribuisce a comunicare gli esiti dei destini individuali e collettivi in uno spazio universale e in una dimensione di tempo senza tempo: «la notte, la luna, la campagna silenziosa e, soprattutto, l’‘ozio sacro’ sono le coordinate spazio-temporali in cui avviene la fascinazione».
E solo nell’ozio sacro, così dimenticato dal nostro tempo, nel silenzio assordante dei boschi, delle campagne desolate, nelle case solitarie e negli spazi sacri delle chiese che emergono le visioni poetiche di Grazia come nel romanzo La madre: «Era un canto primitivo e monotono, antico come le prime preghiere degli uomini nelle foreste appena abitate, antico e monotono come il battere delle onde al lido solitario, ma bastò quel mormorio attorno alla sua panca nera perché Agnese avesse l’impressione di essere davvero… sbucata in faccia al mare, sulle dune fiorite di gigli selvatici e indorate dall’aurora».
Che meraviglioso potere ha il silenzio, raccoglie l’anima ed eleva lo spirito acuendo la percezione, manifestando la grandezza del ricordo e la memoria celata nell’inconscio collettivo di un popolo: «Tutti i suoi giorni solitari le sfilavano davanti, coi versi cantati dal suo popolo». Un enorme magazzino di ricordi affiorano nei personaggi della Deledda «cresciuta fra queste leggende, in un’atmosfera di grandezza che la separava dal piccolo popolo di Aar, pur lasciandola in mezzo ad esso come la perla entro la rozza conchiglia».
Grazia impara ad attingere materiale per le sue storie nella solitudine che accompagna sempre lo scrittore, la cui percezione alterata dal silenzio arricchisce il suo mondo interiore. Emergono ricordi della notte dei tempi, della cultura nuragica, dei riti antichi, delle tradizioni lontane, affiora tutto un piccolo popolo di fate, folletti ed elfi, di spiriti che gironzolano nella notte come fantasmi suscitando angosce e paure come nel romanzo Canne al vento: «agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna; e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro…».
La magia appartiene al vivere quotidiano dei suoi personaggi, pervasi della sapienza di quell’antica Sardegna che ha vissuto la grandezza della ‘nuraghelogia’ e forse della civiltà di Atlantide, dello spirito delle sacerdotesse e dei sacerdoti che camminavano tra i nuraghi, che presiedevano ai riti dell’acqua, che sapevano curare il popolo con il potere delle erbe, come nel romanzo Cenere: «Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali e amuleti». Neria rimarca l’uso farmacologico delle erbe delle ‘medichesse’ mediterranee che guarivano l’uomo nel suo complesso attraverso metodi naturali. La sapienza mitica di queste grandi maghe, poi è stata via via demonizzata dal pensiero occidentale, «fino a mutare quelle donne benefiche in streghe dal mortifero paiolo».
E qui è facile rilevare come i dogmi della Chiesa Cattolica abbiano tentato, mediante la programmazione attuata dai suoi sacerdoti, di spazzare via le credenze popolari dei sardi, tanto che tutta la letteratura della Deledda è una continua mediazione tra la cultura universale del Cristianesimo e il mondo pagano preesistente. Grazia mette in risalto l’assurdità di certi comportamenti inibitori sapientemente insinuati nelle donne della comunità religiosa come in questo brano tratto dal romanzo autobiografico Cosima- pubblicato per volere della stessa scrittrice, postumo -:«Ed ecco le due zie, le due vecchie zitelle, che non sapevano leggere e bruciavano i fogli con le figure dei peccatori e di donne maledette, precipitarsi nella casa malaugurata, spargendovi il terrore delle loro critiche e delle loro peggiori profezie».
Ecco come si era trasformata l’attitudine della divinazione delle sacerdotesse sembra ammettere Grazia, ma preferisco tornare al potere delle erbe magiche e alla poesia del paesaggio con questa citazione dal romanzo Colombi e sparvieri «andrò a cogliere l’alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi porterò un po' d’acqua… ripasserò prima di andare nel bosco; su sorge la luna lucente e bella come una sposa».
Con questa immagine della sorgente e dei fiori di iperico – la vera pianta nota come erba di San Giovanni -, non posso che collegarmi al cognome De Giovanni per raffigurare la nostra Neria nel suo abito risplendente di sole. Un sole acceso nel giallo dei fiorellini che sorridono all’Universo e curano ogni ferita dell’uomo e del cosmo. Per poter manifestare tutto il suo potere di guarigione, la pianta deve essere colta il 24 giugno da una strega che vola con la sua scopa magica proprio nel ‘Neria’ della Notte.
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