Intervista a Giorgio
Linguaglossa a cura di Matteo Chiavarone
Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia contemporanea di
Giuseppe Pedota (CFR, Piateda, 2012 pp. 120 € 13,00).
Intervistiamo Giorgio Linguaglossa, curatore della collana
di saggistica della casa editrice CFR che ha appena pubblicato il volume Dopo il moderno. Saggi sulla poesia
contemporanea, raccolta degli appunti critici di Giuseppe Pedota, composti
dal 2005 al 2010.
Buongiorno, grazie
per l’intervista. «Dopo il Moderno»: di che si tratta? Perché riproporre questi
testi di Giuseppe Pedota?
L'ho già raccontato: tanto tempo fa, a metà degli anni
Novanta con il «Manifesto della nuova poesia metafisica» uscito sul
quadrimestrale di letteratura «Poiesis» nel 1995 (altra rivista auto finanziata
dal sottoscritto), io e Giuseppe Pedota abbiamo stipulato un patto con noi
stessi, cioè che avremmo scritto (a torto o a ragione) quello che pensavamo dei
libri di poesia che leggevamo. In quel
torno di anni però ci siamo resi conto che non potevamo semplicemente scrivere
delle poesie senza impegnarci anche sul terreno di una «nuova critica»
(militante), perché quella «nuova critica» avrebbe anche chiarito i legami che la collegavano alla «nuova poesia» degli
anni Novanta. E così è accaduto che
«Poiesis» è stata il terreno di cultura di una nuova sensibilità e una palestra
della «nuova critica». Ebbene, a distanza di venti anni si può dire che io e
Giuseppe Pedota siamo rimasti degli isolati. Siamo stati sconfitti? Può darsi,
anzi sicuramente siamo stati sconfitti ma ci sono anche delle vittorie di
Pirro, non tutte le vittorie portano dei vantaggi né tutte le sconfitte solo
svantaggi. La vittoria del minimalismo romano-milanese era ampiamente prevista.
È stata una vittoria incontrastata. È stata una valanga che ha travolto e
seppellito ogni resistenza del pensiero critico. Ma oggi, a distanza di venti
anni, possiamo seriamente affermare che la vittoria del minimalismo
romano-milanese corrisponda ai reali «valori» della poesia italiana? L’intento di Pedota è stato appunto quello di
aver posto in discussione il dogma secondo cui quello che fanno gli Uffici
stampa dei grandi editori rispecchi i reali valori della poesia italiana. Per
certo, Pedota è rimasto fedele a se stesso, non si è mai pentito di quell’antico
patto di fedeltà che aveva stipulato con se stesso.
Chi è per lei
Giuseppe Pedota? Che rapporto aveva con questo artista così poliedrico e
anticonformista?
All’epoca, parlo alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe
Pedota era un intellettuale disorganico e isolato, un pittore che aveva smesso
di dipingere quadri da almeno un ventennio e un poeta che aveva cessato di
scrivere poesie da almeno un ventennio quando ci siamo incontrati e conosciuti
per il tramite di un poeta romano, Leopoldo Attolico. Ritengo che il lavoro di
critico e di poeta di Giuseppe Pedota abbia un valore inestimabile per i
giovani e per chi voglia davvero capire che cosa accadeva (ed è accaduto)
dietro e sotto la superficie patinata della collana bianca dell’Einaudi che
pubblicava i testi dei minimalisti (da Patrizia Cavalli a Valerio Magrelli e
adesso i post-minimalisti come la
Gualtieri ). Dal punto di vista della collana bianca
dell’Einaudi Pedota è un autore dimenticato e rimosso? Io ritengo che la poesia
e gli scritti critici di Pedota parlino una lingua molto chiara e cristallina.
C’è stato anche qualcuno che ha tentato di dimenticare in fretta dicendo che in
questi ultimi trenta anni non c’è stato nulla di nuovo nella poesia italiana
(Maurizio Cucchi). Ovviamente, le cose non stanno così. Lo ripeto ancora una volta, né io né Pedota siamo
nati con la camicia di «critico» ma ci siamo sforzati di pensare come «critici» perché
ritenevamo che i tempi richiedessero da noi un impegno «critico» che non
potevamo deludere né eludere, pena la nostra capitolazione intellettuale (ed
etica, che poi è la stessa cosa). Lo sforzo critico del libro di Pedota è
diretto verso i giovani (non contro i giovani), sono i giovani che debbono
ereditare l'esempio e le tesi dei suoi lavori critici, sono i giovani che
devono ricevere il testimone. Il messaggio di Giuseppe Pedota è rivolto ai più
giovani affinché essi riprendano a pensare con la propria testa e non si
facciano intimidire dalla minaccia del castigo dell’isolamento (diretto e/o
indiretto) o altro. Ritengo che anche in letteratura occorra avere coraggio, il
coraggio delle proprie idee, altrimenti si finisce tutti nella melassa
epigonica di coloro che scrivono come vogliono gli Ottimati. Se io, e altri
come me, Ennio Abate, Giuseppe Pedota facciamo della critica è perché questo è
un lavoro che riteniamo ineludibile, necessario.
Certo, anch’io ho dovuto pagare un certo prezzo per questa mia libertà di critico. Degli esempi? Bene ve lo dirò: ho proposto negli ultimi tempi dei miei scritti a LE PAROLE E LE COSE aLA NAZIONE INDIANA e a LA POESIA E LO SPIRITO che
sono stati passati sotto silenzio; alcune riviste come «L'immaginazione» si
sono rifiutate, a priori, di recensire libri che avevo scritto io perché, è
stato detto, avevo osato criticare autori come Cacciatore e Sanguineti. E la
lista potrebbe continuare. Ma nel nostro povero paese tutto ciò è diventato
normale: non c'è più la censura del regime ma c'è la censura degli epigoni
degli epigoni che è occhiuta e salace quant’altri mai.
Certo, anch’io ho dovuto pagare un certo prezzo per questa mia libertà di critico. Degli esempi? Bene ve lo dirò: ho proposto negli ultimi tempi dei miei scritti a LE PAROLE E LE COSE a
Per chi è stato
scritto questo libro? Qual è il suo pubblico ideale?
Il pubblico ideale del libro di Pedota sono i giovani, coloro che vogliono capire qualcosa della storia
d’Italia attraverso la storia della poesia contemporanea.
Che cosa si intende
per “moderno” parlando di poesia?
Questo volume è una
carrellata di poeti, più o meno conosciuti. Chi di loro ha avuto meno successo
di quello che meritava?
Poeti come Giorgia Stecher (di cui ricordo Altre foto per Album del 1996), Maria
Rosaria Madonna (con Stige del 1992),
Maria Marchesi (con L’occhio dell’ala del
2003 e Evitare il contatto con la luce del
2005), Chiara Moimas (con L’Angelo della
morte e altre poesie del 2003), Laura Canciani (con L’aquila svolata del 1983 e Il
contagio dell’acqua del 2010), Dante Maffìa (del quale basti ricordare Il leone non mangia l’erba del 1975, Lo specchio della mente del 2000 e La
Biblioteca
d’Alessandria del 2006), Luigi Manzi (con Mele rosse del 2004), oltre che lo scrivente, sono tutti autori
sotto valutati, direi non solo per svista e incuria ma per una assenza di
pensiero critico indipendente.
Peraltro, occorre distinguere il successo editoriale da
quello dei lettori e da quello della critica. Il primo è nullo o quasi; il
secondo evanescente e illusorio, nel senso che la critica della poesia
contemporanea è affondata in un birc à
brac pseudo critico letterario, in un gergo tra lo ieratico e lo
ierofanico.
Riprendo una domanda
che sta alla base del saggio finale. C’è una crisi della ragione poetica?
È in
atto da almeno trenta anni una Crisi
della ragione poetica. È incontrovertibile.
La
poesia delle nuove generazioni impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole,
assume pose attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come
d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato
corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico;
l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa di possesso
d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato,
socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime, assonanze
interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il «gioco» tra
presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita mistificazione del
poeta di corte. Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina». Sono
gli indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti
scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e
l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno. Mentre l’eterna Arcadia
italica si esprime «nella lingua della clericatura», nella lingua di uso
pragmatico (sempre più periferica e marginale) suonando il plettro delle
viandanze turistiche, la migliore poesia dei giovani dell’ultima generazione
preferisce esprimersi nell’idioma della propria marginalità assoluta,
marginalità linguistica e stilistica che è stata scacciata dai circuiti della
produzione-consumo (quel coacervo di superconformismo di una sottoclericatura
destinata al servizio di corte): la marginalità della merce riciclata e
riutilizzata dell’epoca della stagnazione stilistica.
La
gran parte della odierna poesia oggi in voga (una sorta di sub-derivazione del
minimalismo), con tanto di sublime nel sub-jectum,
scrive in un super latino della comunità internazionale qual è diventato il
gergo poetico in Europa (di cui l’italiano è una sub componente gergale). Ma, è
ovvio, qui siamo ancora (e sempre) sul vascello di una poesia leggera, che va a
gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi neutralizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo
linguaggio come un tappeto ci si accorge che ci sono cibi precotti, già
confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci
sono più limiti. La leggerezza rimbalza sulla superficie, non ne affronta cause
ed effetti drammatici, non c’è indagine della superficialità fino a indagarne e
metterne a nudo le profondità.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto corrente dei genitori in banca) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.
Cosa ne pensa lei
della situazione della poesia oggi? Quanto sta influendo, in bene e in male, la
rete nei processi naturali di una forma d’arte tanto complessa quanto la
poesia?
«Sì,
la scacchiera va buttata per aria», sono d'accordo con Ivan Pozzoni e Francesca
Tuscano, forse la rete può servire ma occorrerebbe una miccia come quella che
ha innescato la catena delle rivoluzioni maghrebine ma per far ciò occorre un «pensiero critico», occorre
riscrivere le «regole minime» per la lettura di una poesia. Lei mi chiede qual
è la prima delle regole minime? Le rispondo: l’onestà intellettuale (molto più
importante di quella monetaria). Lei mi chiede che cos’è un «pensiero critico»?
Le rispondo: sembra di parlare di ircocervi in scatola! Dove si trova? Negli
Almanacchi? Nelle innumerevoli Antologie auto promozionali? Nelle riviste auto
promozionali?
Sì, dobbiamo uscire anche dal pathos dell'autenticità del pensiero militante (ormai storicamente tramontato) e prendere atto che il mondo della chiacchiera letteraria è consustanziale al mondo della chiacchiera poetica; nella misura in cui la poesia È FUORI MERCATO, essa, la poesia corrente è anche fuori della storia, abita il presente, il presenzialismo, la fugace visibilità, la performance; è diventata fluida, liquida, elusiva, esclusiva; il senza-espressione (o l'intensificazione forsennata dell'espressione) tende a prevalere sulla formulazione di un discorso poetico organizzato sulla finalità della conoscenza dell'oggetto.
Non mi meraviglia che la poesia corrente sia finita FUORI MERCATO; se ciò è accaduto è perché il livello qualitativo della poesia corrente (quella proposta dai Grandi Editori) è stata ed è terribilmente basso. Si pubblica per ragioni di contiguità, di affinità e di visibilità accademico-mediatica. Ma andando per questa via in discesa, abbassando sempre di più il livello qualitativo della poesia proposta, si è giunti al punto di non ritorno: non è più possibile scendere più in basso, abbiamo toccato il punto più basso dagli inizi del Novecento, ed i lettori si sono rivolti altrove. Inoltre, la poesia corrente è sempre più idiolettica, auto esasperata, impreziosita di ologrammi e di fantasmi, posticcia, falsa come una moneta falsa e la puoi sentire dal tinnire fesso della sua materia. In queste condizioni che fare?
Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un «pensiero critico» applicato alla poesia. Non c'è altra strada, credo.
Sì, dobbiamo uscire anche dal pathos dell'autenticità del pensiero militante (ormai storicamente tramontato) e prendere atto che il mondo della chiacchiera letteraria è consustanziale al mondo della chiacchiera poetica; nella misura in cui la poesia È FUORI MERCATO, essa, la poesia corrente è anche fuori della storia, abita il presente, il presenzialismo, la fugace visibilità, la performance; è diventata fluida, liquida, elusiva, esclusiva; il senza-espressione (o l'intensificazione forsennata dell'espressione) tende a prevalere sulla formulazione di un discorso poetico organizzato sulla finalità della conoscenza dell'oggetto.
Non mi meraviglia che la poesia corrente sia finita FUORI MERCATO; se ciò è accaduto è perché il livello qualitativo della poesia corrente (quella proposta dai Grandi Editori) è stata ed è terribilmente basso. Si pubblica per ragioni di contiguità, di affinità e di visibilità accademico-mediatica. Ma andando per questa via in discesa, abbassando sempre di più il livello qualitativo della poesia proposta, si è giunti al punto di non ritorno: non è più possibile scendere più in basso, abbiamo toccato il punto più basso dagli inizi del Novecento, ed i lettori si sono rivolti altrove. Inoltre, la poesia corrente è sempre più idiolettica, auto esasperata, impreziosita di ologrammi e di fantasmi, posticcia, falsa come una moneta falsa e la puoi sentire dal tinnire fesso della sua materia. In queste condizioni che fare?
Pubblichiamo di meno. Anzi, come qualche tempo fa scrisse Luigi Manzi, non pubblichiamo affatto, facciamo una serrata di 10 anni non pubblicando alcun libro di poesia! Sarebbe già qualcosa. Ma, ovviamente da solo questo non basta. E bisogna ritornare a mettere in onda un «pensiero critico» applicato alla poesia. Non c'è altra strada, credo.
Che Pedota sia un eretico? Ma eretico di che, di quale ortodossia? E chi l'ha stabilita l'ortodossia? Io penso molto semplicemente che Pedota sia un critico che pensa il proprio oggetto: il Moderno, o meglio, ciò che è accaduto nel Dopo il Moderno. Pedota non è mai stato interessato a far da sponda a questo o a quello, i suoi non sono «giudizi» tribunalizi, lui non è un giudice monocratico che emette sentenze, è un essere pensante che esprime valutazioni e argomentazioni.
A mio avviso, un libro come quello di Giuseppe Pedota, se fossimo in un paese serio, intendo se fossimo in un consesso di intellettuali credibili, dovrebbe essere analizzato e discusso; e invece nulla di tutto ciò. È per questo che io ritengo che in Italia gli effetti devastanti della «stagnazione economica, spirituale e stilistica» si propagano a macchia d'olio su tutti gli aspetti della vita associata. Perché? vogliamo dirlo? La poesia è una attività pubblica, che si fa in privato ma si esercita in pubblico. Ma, ovviamente, il luogo pubblico della poesia non coincide con quello del mercato.