I Racconti di Patrizia Boi
pubblicati su Il Nuovo Territorio di Latina
Pubblicato Lunedì 19 Gennaio 2009 su Il Nuovo Territorio di
Latina
1 Una rottura del
tutto improvvisa
Laura questa
volta era stata categorica, aveva esposto a Roberto tutte le buone ragioni di questa
rottura, le sofferenze patite, le umiliazioni tollerate, le attese che
l’avevano snervata. Roberto non le aveva dato retta, aveva come al solito
creduto di poter tirare avanti con la scusa dell’amore. Quando si era
presentata con gli occhi di fuoco, lui aveva sorriso dolcemente tentando di
prenderla tra le braccia, ma lei si era scostata. Certo se fosse riuscito a
baciarla, lei non avrebbe parlato, il bacio le avrebbe dato l’oblio, invece era
rimasta fredda, aveva addirittura urlato, gli aveva sputato in faccia tutto il
suo malessere. Roberto era stato costretto a risponderle con un sì o un no,
senza avere la chiara consapevolezza di cosa significasse ammettere che non
avrebbe lasciato sua moglie.
In quel
momento, incalzato dalla sua rabbia, non aveva fatto in tempo a chiedersi se
fosse meglio troncare un matrimonio in agonia o rinunciare a una storia d’amore
piena di passione. Era stato investito dalla freddezza di Laura come un
passerotto schiacciato dalla furia di un temporale. Era tornato a casa
frastornato, in balia di un’angoscia che lo scuoteva fino alle viscere.
Imbattutosi nel
volto corrucciato di sua moglie, era passato oltre senza sentire le solite
lamentele. Entrato in bagno, si era guardato allo specchio e aveva visto un
uomo disfatto. Lo torturavano domande e sentimenti contrastanti. Voleva essere l’uomo
perfetto per la famiglia anche a costo di rinunciare a se stesso? Lui temeva i
giudizi di sua moglie, di sua madre, di sua suocera e soprattutto di suo padre.
E se avessero saputo di questa relazione clandestina che ormai durava da un
anno? Come lo avrebbero giudicato? Avrebbero compreso? Avrebbero avuto pietà di
lui? E lui avrebbe avuto l’audacia di fare le valige e sparire lasciando tutto
il passato? No, lui non aveva questo coraggio, aveva costruito l’immagine di un
padre modello, di un marito sincero, di un figlio ideale. Cosa voleva da lui
una come Laura? Una donna libera che non conosceva le responsabilità di chi si
è creato una famiglia. Non poteva chiedergli questo, era spietato da parte sua pretendere
una simile rinuncia. Poteva invece non vederla mai più? Non parlare più con
lei? Non fare più l’amore con lei? Già, da quando l’aveva conosciuta non era
più riuscito a far l’amore con sua moglie. S’inventava pretesti per
procrastinare il contatto con lei, non la desiderava più, non l’amava più. Lui aveva
voglia solo di Laura, si sentiva uomo solo con Laura: con lei poteva fare l’amore
anche tre volte di fila, anche tutta la notte, anche in mezzora di tempo tra un
impegno e l’altro. Lui le voleva bene davvero, con lei condivideva tutto se
stesso, le sue passioni, le sue fantasie erotiche, i suoi sogni. E allora
perché non sceglieva di vivere liberamente quest’amore come gli chiedeva Laura?
Al solo pensiero di Laura, il suo sesso si risvegliava, la smania di lei lo
invadeva, la sua mente l’immaginava senza veli. E ora? E ora che Laura lo aveva
lasciato? Che cosa sarebbe successo? Era disperato, sentiva il suo membro come
morto, un moccolo inutile appeso al corpo di un suicida.
Sua moglie
aprì di scatto la porta, infuriata perché non faceva più l’amore con lei: s’avvicinò,
lo spogliò brutalmente, gli tastò il sesso come fosse un animale da monta e non
ottenne nessuna reazione. Lo insultò per tutta la notte e lui non si difese, sì…
si fece umiliare abbassando la testa in segno di manifesta colpevolezza.
L’indomani fu accompagnato dall’andrologo per una visita di controllo.
Impotenza da
trauma, fu la diagnosi.
Pubblicato Martedì 20 Gennaio 2009 su Il Nuovo Territorio di
Latina
2 Nello scompartimento del treno
2 Nello scompartimento del treno
Michele trascorse l’ultimo giorno di
lavoro a mostrare le sue pratiche al responsabile dell’Ufficio Legale. La sua
stanza ordinata e linda era l’immagine dell’uomo preciso e compito ch’era stato
nella sua carriera lavorativa, un impiegato insostituibile per l’Amministrazione,
un impiegato che l’indomani sarebbe stato sostituto. Finito il suo orario di
servizio, quel giorno prima della pensione, era giunto in stazione con
l’affanno, con la sensazione che un cambiamento insopportabile stesse per
sconvolgere la pacifica ripetitività del suo tempo. Salì sul treno, sedette
nello scompartimento e iniziò silenziosamente a leggere il Sole e 24 Ore. Una
giovane fanciulla che occupava il posto dirimpetto al suo lo guardò con
insistenza e gli sorrise. Michele non era avvezzo a simili slanci d’affetto e
rimase interdetto. Siccome la giovane non smise di guardarlo e di sorridergli,
allora le domandò: <<Forse, signorina, ci conosciamo?>>.
La giovane rispose: <<No signore… non conosco…lei aria molto
triste…vorrei rallegrare sua giornata>>.
Michele rimase sorpreso dalle
parole della straniera. Poi la osservò meglio e s’accorse che, sotto il cappotto,
spuntavano due splendide gambe affusolate messe in bella mostra e un seno
piccolo ma ben fatto bianco come il latte. Allora divenne rosso in viso e soffocando
l’emozione che lo faceva divampare, con voce quasi strozzata, chiese un poco
irrigidito: <<Come ti chiami? Da dove vieni? Sei quasi una bambina, sei giunta
in Italia per fare questa vitaccia? Per fortuna hai incontrato uno come me, uno
che non approfitta della situazione, uno che ti salverà>>.
<<Sono Rumena, mi chiamo
Maria… ho diciotto anni… non ho padre, madre alcolizzata. Sono a Italia con mio
ragazzo, non possiamo pagare affitto…cerco di guadagnare come posso…>>,
rispose la donna.
<<Perché non cerchi un
lavoro più dignitoso? Sei così giovane, ti ho incontrato in tempo per impedirti
di distruggere la tua esistenza. Sei venuta in questo paese per rovinare questa
bella personcina, per sprecare i tuoi anni e il tuo corpo di bimba?
Mettiti a studiare, trova una famiglia rispettabile con cui abitare e cambia il
tuo destino. Adesso ti faccio un regalo senza chiederti nulla in cambio, così
oggi non farai sciocchezze. Promettimi che lascerai questo terribile mestiere!>>,
sentenziò Michele, poi prese il portafogli, tolse fuori un biglietto da cinque
euro e lo diede alla giovane.
Siccome era arrivato alla
stazione di Pomezia, mentre Maria andava verso Latina, si preparò a scendere
con quel piglio di soddisfazione che si legge nel volto di chi ha certamente
fatto una buona azione.
Maria lo salutò cordialmente
mentre rigirava tra le mani quel biglietto da cinque euro. Rimasta sola, si
mise a fissare la banconota tutta stropicciata e scoppiò a piangere dalla
rabbia. Allora prese il denaro e lo fece pazientemente in mille pezzi: ogni
taglio le dava un senso di soddisfazione, ogni frammento una boccata di se
stessa. Quando ebbe concluso di strappare la banconota, aprì il finestrino, s’affacciò
con i capelli al vento e fece volare i pezzi di carta nel vortice d’aria creato
dalla marcia del treno. Osservò i pezzetti allontanarsi nella campagna e pensò
tra sé e sé: << Ma guarda se la prima volta che ci provo, mi deve
capitare proprio un Moralista!>>.
Nel frattempo Michele, sceso dal treno, si era voltato confuso e
si era detto: <<Beh, però era bella…peccato…se non fossi impotente!>>.
3 Angelo senza limiti
Lucrezia
provava per Angelo un amore incondizionato indipendentemente da quanto lui la
ricambiasse. Sapeva che in amore non si devono porre limiti al dare, che la
gioia dell’amore si manifesta proprio nell’’atto di donare. Sapeva che Angelo
non poteva amarla nella stessa misura per via della sua giovinezza, per quell’inesperienza
che non gli consentiva ancora una piena consapevolezza di sé e gli rendeva
difficile amarsi e amare. Non si poteva fargliene una colpa, la scala
dell’amore sale man mano che la vita la nutre con situazioni nuove, con
esplorazioni profonde della realtà e delle dinamiche di coppia. Se Lucrezia non
era capace di amare senza soffrire, era perché si aspettava da Angelo qualcosa
che lui non era in grado di darle. Del resto lei ben sapeva che si deve amare
senza attendersi niente in cambio, che l’amore non si può vendere a chili e non
si baratta a grammi. L’amore non è misurabile e confrontabile, è un’entità che
i matematici definirebbero incommensurabile. Lei amava Angelo per affinità
elettiva, per l’anima che lo abitava, per quella sua umiltà esasperata, per
quella sua dignità esasperante, per quella delicatezza verbale che esprimeva
con similitudini molto poetiche. Angelo soppesava ogni parola come fosse un
esperto erborista nel dosare il suo intruglio, creando immagini sorprendenti
che solo a una sensibilità esagerata come la sua potevano venire in mente. Se
Lucrezia ci avesse pensato per intere notti, non sarebbe riuscita a descrivere allo
stesso modo le emozioni che lui contemplava captandole in un istante. Angelo si
occupava di letteratura e nella sua rubrica culturale riusciva a non parlare
mai male di nessuno, trovava sempre i lati positivi anche dei poeti e degli
scrittori meno dotati, ne lodava le qualità evitando di metterne in cattiva
luce i difetti. Solo a se stesso attribuiva profondi limiti e non si
risparmiava lavate di capo e severe frustate, cosicché quelli che volevano
ferirne l’anima fragile, gli agitavano addosso la spauracchio della sua
inadeguatezza e lo riducevano in loro potere. Allora lui aveva scoperto il conforto
della menzogna, recitava la sua parte per favorire la volontà altrui rinunciando
a se stesso. Come poteva Lucrezia volergliene per questa debolezza? Era l’unica
difesa che aveva escogitato contro il giudizio tagliente della gente e faceva di
tutto per essere accondiscendente. Questo gli costava certamente di meno che provare
a dire la verità con coraggio. Aveva talmente investito in perfezione che preveniva
gli altri criticandosi aspramente e lo faceva apposta per stimolarsi ad essere
migliore e se migliore non riusciva ad essere si autopuniva massacrandosi con
dure ore d’impegno. Lucrezia lo amava nonostante tutto, lo amava anche per
questo, per questa sua ricerca spasmodica di perfezione e di qualcuno che lo
amasse per la sua precisione. Del resto sapeva fare ed essere tante cose, era
un amante tenero e un compagno dolce e gentile, sempre disposto a consolare la
propria donna se era sotto tono e a tirarla su se aveva crisi di disistima, attento
a soddisfarla con impagabili notti d’amore. Quando Lucrezia se la prendeva con
lui per qualche motivo, un istante dopo se ne pentiva: cosicché ogni volta che voleva
fargli comprendere un errore o un comportamento che a lei aveva generato dolore,
gli appariva indifeso come un pulcino a cui avessero staccato tutte le piume. Siccome
non sopportava il suo pigolare disperato, gli riattaccava immediatamente il
piumaggio che gli aveva tolto che tanto se lei ci rimetteva qualche penna non
ne faceva una tragedia, le sarebbe ricresciuta presto.
Pubblicato Giovedì 29 Gennaio 2009 su Il Nuovo Territorio di
Latina
4 Lo specchio della camera da letto
Avvolta nelle lenzuola, Sofia s’era accoccolata accarezzando la
seta del suo pigiama. Spenta la luce, aveva provato a chiudere gli occhi. Era
circa un mese che Anselmo l’aveva lasciata, un mese in cui aveva riposato nel divano
dello studio. Le era mancato il coraggio di dormire in quella stanza, la camera
che raccoglieva tutti i suoi sogni, tutti i bei progetti futuri volati via
insieme alle volute di fumo che ora riempivano le sue notti. Nel divano aveva
ingannato l’attesa del sonno leggendo, spesso ferma alla stessa pagina per il riaffiorare
dei ricordi. Ritornare nella stanza da letto significava affrontare lo
specchio, quello spettatore che aveva assistito, attonito e imbarazzato, agli
istanti più magici della sua vita. Ora che aveva spento la luce, le pareva di
evitare quella facciata liscia e luminosa, quella patina argentea minacciosa
come la superficie di un lago. Ogni volta che osservava la sua immagine
riflessa in quello specchio, altre figure ne invadevano il piano, il groviglio
dei corpi che danzavano sulle musiche di Bach, i volti trasfigurati dal piacere
dei due amanti, le ore di conversazione, di coccole, di tenerezza, i momenti di
tensione, la serenità del sonno dopo l’amore. Al buio della stanza, gli occhi
serrati nella speranza del sonno, lo specchio non l’avrebbe disturbata, si sarebbe
assopita senza l’incubo di quelle forme. Invece il bagliore dello specchio
aveva fatto breccia nel suo cervello, aveva forato gli occhi chiusi, aveva
acceso la luce dei ricordi, era sbucata terrorizzante per annichilire la sua anima
angosciata. Sofia aveva riaperto gli occhi e aveva visto grondare un liquido
rosso, aveva osservato il riflesso del suo corpo nudo, lo sguardo di Anselmo
che le bucava il petto, il corpo di lui che le si avvicinava deciso e maschio,
che s’infilava tra le sue cosce come un toro scatenato. Aveva provato a
scacciare quelle figure, di lui, di lei, dei loro amplessi interminabili, ma la
sua mente ne era stata sommersa. Lo specchio rilasciava quel liquido come fosse
sperma, lo trasudava come un male incurabile che usciva dalle pieghe della sua
fantasia. Quel seme che aveva accolto fiduciosa nel suo corpo, le prendeva la
vita come il dolore dell’assenza. Lo specchio pronunciava parole, frasi che si
rifrangevano indelebili sull’anima sconvolta di Sofia, come fosse un cristo
messo in croce dalla luce della sua gloria. A un tratto, nel cuore della notte,
mentre tutta la città dormiva, quando il buio di un cielo senza luna rendeva le
strade e il profilo dei palazzi oscuri come l’implacabilità della morte, un
urlo terrificante investì il silenzio che immergeva l’appartamento. Solo urlare
le dava sollievo, solo gridare fuori il suo dolore le faceva tollerare la mancanza. Una nausea
spaventosa la invase dalla bocca dello stomaco fino al cervello finché i conati
le fecero vomitare tutto quello che aveva in corpo. Dopo che si fu liberata lo
stomaco, la colse un pianto irrefrenabile, cominciò a singhiozzare tutto lo
sconforto della sua esistenza. Il pianto durò fino all’alba, la mattina
l’accolse come una nuvola di pioggia dopo una nottata di temporale. S’alzò in
piedi, andò verso l’armadio e vide un volto deturpato da due occhiaie violacee.
Era stanchissima, aveva paura d’addormentarsi, ma aveva bisogno di dormire. Le
venne in mente di dare via quell’armadio, di disfarsi di quello specchio
orrendo che infilava la lama nel suo dolore e la pugnalava nel profondo. Allora
le venne sonno, s’addormentò e dormì undici ore di fila. Si svegliò che era pomeriggio
inoltrato, cercò il recapito di un rigattiere che si prendesse quel mobile,
mise il dito sui tasti del telefono e compose un numero. Attese un poco e
quando una voce rispose all’altro capo del filo, abbassò la cornetta e
riattaccò. Le lacrime solcavano il suo volto mentre si specchiava nel bagliore
che colpiva in quel momento la
stanza. Si sedette sul letto a osservare la sua figura ora più
riposata, s’avvicinò allo specchio e l’abbracciò. Cominciò a chiedersi quali fossero
le sue responsabilità nella rottura voluta da Anselmo, si osservò attentamente
e comprese un sacco di cose che prima non aveva visto, aprì gli occhi e vide le
verità che fino a quel momento si era nascoste, osservò meglio dentro lo
specchio e le apparve un chiarore maestoso, raccolse un sorriso di gioia,
recuperò tutti i bei ricordi, si asciugò le lacrime e si vestì. Scese per
strada silenziosa a passeggiare all’aria da sola.
Pubblicato Lunedì 2 Febbraio 2009 su Il Nuovo Territorio di Latina
5 La stazione dell’oblio
Quel giorno David e Letizia s’incontrarono
sul treno, diretti verso Ravenna. Non era stato facile per Letizia convincere
suo marito a non accompagnarla, gli aveva detto che voleva andare da sola. La
visione degli occhi dolci di David le aveva sciolto ogni dubbio e desiderava godersi
tutto il tempo senza pensare a nulla, senza senso di colpa, senza paura, senza
preoccuparsi del futuro, senza l’ansia di dover tornare a casa. Avevano tutta
la notte a disposizione, con l’unico impegno di portare a un gioielliere le
fedi del matrimonio per farle allargare e diecimila euro per pagare un collier
che suo marito le aveva donato per il loro settimo anniversario. Letizia aveva
riposto soldi e fedi in uno zainetto insieme a un libro sul senso dell’amore e
lo aveva poggiato sul sedile. Poi era stata per tutto il viaggio avvolta tra le
calde braccia di David e non aveva più pensato a quegli impegni. Il treno era
pieno di gente, una folla di persone che lavoravano al portatile, che chiacchieravano
al cellulare, che parlavano di lavoro. Lei e David si scambiavano parole
d’amore, baci e carezze incuranti di qualunque sguardo. Il viaggio fu così
veloce che giunsero a Bologna senza accorgersene. Scesi alla stazione di
Bologna non si ricordavano che treno prendere e non riuscivano a leggere il
tabellone degli orari. A un certo punto David vide sul monitor l’indicazione di
un treno per Venezia e pensò che fosse nella direzione di Ravenna. Corsero,
così, trafelati verso il binario segnalato. Seduti in uno scompartimento
appartato continuarono a guardarsi negli occhi e a promettersi amore eterno,
cosicché si dimenticarono di nuovo dov’erano diretti. A un tratto Letizia chiese
distrattamente al conduttore a che ora sarebbero arrivati a Ravenna e lui le
fece presente che avevano sbagliato treno. Letizia e David scesero allora alla
prima fermata e tornarono a Bologna. Saliti sul treno per Bologna continuarono
a fare l’amore in mezzo alla gente scambiandosi l’anima di fronte a tutti.
Giunti a Bologna cercarono ancora una volta il treno giusto. Mentre si recavano
al binario esatto, Letizia s’accorse di non avere più lo zainetto, si ricordò
d’averlo poggiato sul sedile del treno per Venezia e di averlo scordato là.
Andarono allora all’ufficio degli oggetti smarriti ma fu tutto inutile. In quel
momento Letizia si convinse che proseguire senza anelli e denaro significava
avere due impegni in meno e più tempo per loro due. Mentre sul treno per
Ravenna continuavano a stare abbracciati, Letizia si mise a pensare alla
perdita delle fedi. David era preoccupato per la reazione del marito di Letizia,
lei, invece, si sentiva serena come se avesse perso un fardello che le gravava
nell’anima. All’improvviso disse a David:
<<Amore mio, abbiamo
sbagliato treno ma forse abbiamo preso il treno giusto, ho perso i soldi di mio
marito e le fedi del matrimonio, ora mi sento libera. Perché non ricominciamo tutto
io e te da soli a Venezia?>>
<<E tuo marito?>>,
rispose David.
Pubblicato Martedì 3 Febbraio 2009 su Il Nuovo Territorio di Latina
6 I segreti del Direttore
Il Direttore del giornale si rivolgeva spesso a Marta quando gli articoli da scrivere erano avvolti nel mistero. La chiamava nella sua stanza, la coccolava, la intratteneva raccontandole le sue passioni, si complimentava per la sensualità dei suoi sguardi e per la malizia dei suoi abiti. La proteggeva da avances più determinate quell’alea di riservatezza che ammantava il suo matrimonio, una sorta di ménage ideale di cui lei parlava sempre in maniera velata. Così erano passati circa dieci anni senza che la tranquillità di Marta fosse scalfita nel suo mondo lavorativo. Dopo quel periodo di serenità improvvisamente Marta andò via di casa separandosi dal marito per vicissitudini ignote all’ufficio. Da quel momento la sua stanza divenne la meta di pellegrinaggio preferita per i colleghi insoddisfatti della loro vita coniugale e delle loro famiglie. Non che precedentemente avessero disdegnato di farle la corte, ma sapendola sola l’avevano letteralmente bersagliata, come se quella condizione la rendesse più appetibile. La cosa più inspiegabile le successe con il Direttore del giornale. Erano anni che si davano del tu, ma Diego non era mai stato arrogante nel suo corteggiamento. Quando seppe, però, che Marta viveva ormai da sola, iniziò a incalzarla con insolenza. Una volta entrò nella sua stanza, l’abbracciò e la baciò con vigore prima che lei potesse divincolarsi. Considerando la statura di Diego e la sua mole, per quanto Marta non fosse esile e piccola, era difficile difendersi da un uomo con tanta forza. Fu così che lei decise di sorprenderlo. Un bel giorno indossò una camicetta trasparente e scollata, una gonna con lo spacco e un paio di scarpe col tacco alto. Sciolti i lunghi capelli si riempì il collo di profumo. Quando Diego s’affacciò nella sua stanza, Marta gli sorrise con dolcezza, invitandolo ad entrare. Accortosi che lei si lasciava andare, Diego girò la chiave nella serratura. A quel punto la dolcezza di Marta divenne aggressività. Lo spogliò con grinta, gli strappò quasi pantaloni e mutante d’addosso e fissando il suo membro disse con risolutezza: <<Adesso mostrami quanto sei virile>>. Continuò quindi a osservare insistentemente le dimensioni del suo pene, ci mise la mano sopra con un atteggiamento di sufficienza e cominciò a tastarlo. A quel punto Diego sudava freddo e la sua erezione scemava. Il membro di Diego diventò piccolo piccolo, lui si vergognò come un ladro, si rivestì in fretta e furia e sgattaiolò via dalla stanza. Da quel giorno non entrò più nella stanza di Marta, non fece più sfoggio di virilità e non la chiamò più per un Tete à Tete nel suo ufficio. Gli incarichi le arrivavano tramite una collega che fungeva da filtro impedendo che s’incontrassero. Naturalmente lui cercò di liberarsi di lei, ma lei aveva previsto anche questo: filmata la scena di sesso tramite una telecamera nascosta, l’aveva portata da un avvocato. Quando lui provò ad allontanarla, gli mandò una copia della cassetta e lo minacciò oltre che di una denuncia per molestie sessuali, di far vedere quella scena a tutto l’ufficio. Sono passati almeno cinque anni da quell’episodio, Marta occupa sempre il suo posto, il Direttore è stato cambiato. Ora il giornale è diretto da una decisa signora di mezza età. Quando Marta l’ha saputo ha tirato un respiro di sollievo e si è detta tra sé e sé: <<Speriamo non sia lesbica!>>.
Pubblicato Venerdì 6 Febbraio 2009 su Il Nuovo Territorio di
Latina
7 Follie di un vero amore profondo
Un serpente mi tormenta, m’attacca
le budella, mi prende, mi scuote, m’uccide. Non posso alzarmi, la testa pesante,
le gambe molli.
Mi alzo, sbando, cado. Dove sei
equilibrio? Dove siete gioia e sorriso? Non abbandonatemi...
Perché mi tormenti? Perché non
mi lasci andare? Mi vuoi o non mi vuoi? Mi temi, mi vuoi ma mi temi. Allora
fuggi, mi lasci sola... Sì, m’abbandoni fino alla prossima volta, che non so
quando sarà. Mi ami, mi ami, mi ami. Sì, mi ami, ma poi vai via. Allora vattene
e lasciami sola… Sola… Sola….
Non andartene, abbracciami… Che
droga hai messo nei tuoi baci? Perché mi manchi dentro? Cosa mi ha lasciato il
tuo seme? Già, i figli… i figli che hai deposto dentro di me, i germogli del nostro
amore…
Non voglio più amarti! Voglio
dimenticarti!
Dipingo, dipingo, dipingo.
Sempre la tua faccia, non riesco a trovare altro che la tua faccia…la tua
bocca… quella tua bocca sensuale…
E se mi addormento ti sogno …
nudo … con la voglia di noi… Mi stai rubando i sogni. Allora ti cancello dalla
mente. Ma il corpo, il corpo non ne vuole sapere di cancellarti. Ti appartengo,
sei nelle mie cellule, cancellarti significa buttare tutte le mie cellule…
morire…
Mi perdo, paralizzata da Amore,
non sento altri stimoli. Niente m’interessa, nessuno m’interessa, perché non te
ne vai? Perché non lasci il mio corpo o essere diabolico generato dall’amore? Brucio
per te, solo per te, anche se non voglio… Ti ho chiuso il mio corpo e tu mi
incateni le viscere, mi fai male…
Io volevo stare con te, dormire
con te, mangiare con te, sognare di te. Hai paura dei legami, hai paura di
coinvolgerti e sfuggi, mi prendi, mi coccoli, mi baci, mi apri, mi riempi, poi vai
via. M’incateni a te e temi le catene. E se ti lascio sei perso. Me lo spieghi
questo gioco dell’amore? Hai il terrore che finisca? Buttati e se finisce, finisce…
Non m’accontento, voglio
l’assoluto, cogliere l’essenza dell’amore. Che non ci lasci mai. Voglio che sia
eterno, che duri oltre noi, nei nostri figli immaginari…
Per te l’amore è effimero, te
lo godi a dosi. Stabilisci la dose e il momento. L’amore è una droga. Poi si
dipende, io dipendo dalle tue dosi. Che essere abbiamo prodotto? Una piovra
diabolica che ci succhia la vita? Si può
amare in modo giusto? Si può misurare la dose d’amore necessaria? Si può
stabilire quanti grammi ne occorrono per essere felici? Si può tollerare il
dramma dell’assenza, dell’abbandono, della mancanza? Abbiamo tutto il resto, è
vero, ma ora non ci interessa, l’unica cosa che conta è avere noi…
Oh, è meglio che te ne vada, è
meglio che mi dimentichi. Dimmi che non mi ami, dimmi che non mi hai mai amato
e potrò tollerare la tua assenza. Ti potrò odiare, potrò rassegnarmi. Erano
tutte illusioni le nostre parole, i nostri baci, le nostre promesse. Illusioni.
Illusioni, illusioni. Sogni, nient’altro che sogni. L’amore non esiste, ce lo
inventiamo. Ne abbiamo bisogno e lo dipingiamo, lo scriviamo. Era così quando
ti respiravo, c’eri in quei momenti? Eri vero o solo nella mia immaginazione?
Mi hai amato o hai amato l’immagine dell’amore? Il sogno? Il desiderio d’essere
amato? Cosa è reale, dov’è la misura, cos’è l’essenza? Aiutami saggezza, dove
sei? Sono cieca, non vedo altro che te, tutto il resto non conta…
Perché c’è sempre una fine?
Perché tutto si consuma? Perché ogni cosa degenera nel suo opposto? Vita e
morte? Amore e odio? Equilibrio e follia?
Vattene amore mio, vattene
lontano, non tormentarmi, non cercarmi, non amarmi, vattene per favore,
lasciami in pace, rendimi la libertà!
Non ho più certezze amore, la
realtà è confusa, la vita è sogno. Mi immagino di te, di noi, dei momenti
felici, brevi e intensi istanti di gioia. Quanti minuti nella mia vita sono
stati felici? Preferisci che siano i minuti a dettare l’essenza, a cogliere
l’assoluto che c’è nel tempo? Cos’è il tempo? Quanto dura un minuto? Quanto
vuoi che duri? Quanto dura con te? Un minuto è un secolo se vuoi, il tempo
sfugge, sfugge, prendilo per favore, non far sfuggire l’attimo del nostro
amore.
Pubblicato Martedì 17 Febbraio 2009 su Il Nuovo Territorio di
Latina
8 La
solitudine di Barbara
Le vacanze di Natale erano
drammatiche per Barbara, erano feste per le famiglie. Marco era andato a sciare
con moglie e figli e lei era rimasta sola. Non che le mancasse la compagnia di
altri uomini, era piena di corteggiatori, innamorati della sua bellezza e
dell’eroticità delle sue foto.
Barbara lavorava sul nudo
artistico: i suoi scatti intrigavano e affascinavano uomini e donne. Era un
modo per leggere la sua realtà interiore, l’eros che ne permeava vita e arte.
Anche Marco, attratto dalla verve che sprigionavano quelle immagini, le
aveva dedicato articoli, interviste e l’aveva corteggiata.
La passione era esplosa
inarrestabile, una comunione assoluta d’ogni particella che li componeva, era
stata volo, cielo, mare, oceano, estasi. Marco lasciava il giornale quando
poteva per raggiungerla e trascorrere il tempo nel loro angolo d’intimità. Poi
però lui se ne andava, la sera tornava da sua moglie e lei restava con il
profumo di lui e il ricordo delle sue carezze. Quando riusciva a inventarsi un
servizio in un’altra città rimaneva a dormire da lei. Allora Barbara era
felice, gli preparava cenette deliziose e lo coccolava con tenerezza. Gli aveva
pure comprato degli indumenti per farlo sentire a suo agio: pigiami,
biancheria, spazzolino, accappatoio, pantofole. Liberato uno spazio
nell’armadio e alcuni cassetti, vi aveva raccolto le sue cose e tutti i suoi
articoli.
Qualche volta facevano delle
vere e proprie gite, sembravano sposi novelli incuranti della realtà dei fatti.
Barbara scattava molte foto di loro, foto che catturavano la gioia, la luce
negli occhi, il sorriso, i corpi intrecciati, la trama della passione.
Una volta avevano visitato un’abbazia,
pranzato mano nella mano, poi avevano vagato fino a un santuario nei paraggi. Nei
pressi dell’altare li aveva colti una sensazione pazzesca, il déjà vu di
un loro passato matrimonio: si erano guardati negli occhi e lei era scoppiata a
piangere. Erano tornati in silenzio sotto un temporale che non lasciava vedere
la strada. Barbara era così angosciata che pensava ad una punizione per la loro
relazione clandestina. Le raffiche di vento sballottavano la macchina
sull’autostrada: sembrava dovessero precipitare nel vuoto o nella furia del
Tevere. Lei aveva gli occhi sbarrati
dalla paura, lui guidava senza perdere il controllo. Improvvisamente partì una scarica
di domande che Marco non voleva sentire. Quasi temendo che fosse l’ultima
possibilità di parlare prima della morte, Barbara chiedeva una scelta, Marco
continuava a guidare senza rispondere. Poi la pioggia cessò e insieme alla
tempesta anche Barbara si calmò. Arrivati a casa di Barbara, Marco si congedò
per tornare a casa. Barbara salì da sola, rassegnata alla situazione.
Durante le vacanze estive, stava
attaccata al cellulare aspettando i messaggi di Marco, come se ne potessero
sostituire l’assenza. Aveva patito un forte mal di denti ma la radiografia non
rivelò mali organici. Allora Barbara ricordò quel sogno dove perdeva i denti e
si sentiva angosciata dall’impotenza. La situazione la rendeva impotente, si
era ridotta ad attendere appesa ai momenti di libertà di Marco. Se lui l’amava
come diceva, poteva costringerla a questo limbo di vita?
Il momento più drammatico era stato
il Capodanno, iniziare il nuovo anno da sola, mentre lui era distante. Ogni
tanto riceveva un segnale da Marco, un messaggio d’amore, una poesia, ma lei
stava male, senza spazio per esistere. Poteva rimanere nascosta per tutta la
vita? Che intenzioni aveva Marco? Di tenerla così per tutelare la famiglia? E di
lei non si curava?
Fu per questo che quando lui
tornò gli fece quell’unica domanda che le rombava nella testa. E la risposta fu
secca: <<Non posso lasciare la famiglia>>.
Erano passati tre anni da
quando vedeva Marco, ora doveva ricominciare dal baratro di se stessa.
Al Gremio dei sardi con lo scrittore e critico milanese Franco Romanò (http://agendadiscrittore.blogspot.com/)
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