Quest’anno voglio onorare le feste dedicandole a un trio di donne unite da un destino comune: Grazia Deledda (Natale), Alessandra Peralta (Capodanno) e Neria De Giovanni (Epifania). La sincronicità le ha messe in contatto nel settembre 2017 in occasione dell’Anniversario dell’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura (1926) alla Nostra Grande Antenata.
Non bisogna credere che sia facile giungere a un traguardo così importante, soprattutto se si nasce ‘Donna’, in una piccola realtà di seimila anime. Anzi, questo potrebbe fungere da stimolo a prefiggersi una missione! Sono davvero pochi quelli che hanno seguito la propria missione come Grazia, nonostante questo svantaggio. Nei documenti ufficiali del Comune di Nuoro del 1871, infatti, si legge: «Il 28 Settembre è nato un bambino di sesso femminile».
Si tratta, per l’appunto, di Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, unica donna italiana ad aver vinto il Nobel per la Letteratura insieme a Carducci, Pirandello, Quasimodo, Montale e Dario Fo, nonché una delle dieci nel mondo che abbiano raggiunto tale traguardo. È stata sempre risoluta Grazia, ha impugnato la penna da adolescente, quando ancora non sapeva scrivere in italiano, e non l’ha mai abbandonata. Eppure ci hanno provato in molti a dissuaderla. Ad iniziare dalla propria famiglia, dall’ambiente in cui era cresciuta, dal suo paese, dalla sua Isola. In una intervista radiofonica negli anni venti afferma, infatti: «La mia famiglia era composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere a tredici anni fui contrariata dai miei…».
Sua madre l’ha osteggiata perché non si addiceva a una signorina di buona famiglia scrivere, raccontare passioni proibite, descrivere le verità nascoste, esprimere un giudizio, un pensiero e soprattutto evidenziare i limiti della società sarda dell’epoca. Che del resto non appartenevano solo a quella primitiva Sardegna di pastori e banditi del 1900 – , ma anche a tutte le altre società patriarcali, indipendentemente dallo sviluppo culturale del luogo e della comunità.
Altrimenti che bisogno avrebbe avuto Simone de Beauvoir - la celebre compagna di Sartre - di scrivere il suo saggio Il secondo sesso introdotto da queste parole? «Che cosa è una donna? L’enunciazione stessa del problema mi suggerisce subito una prima risposta… A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell’umanità. Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: “Sono una donna”». Eppure Simone, nel 1949 - quando uscì il libro che divenne opera cardine del pensiero femminista -, viveva liberamente a Parigi, in una Francia ormai lontana dai disastri della Guerra e dalla successiva ricostruzione necessaria.
Senza nulla togliere alla grandezza delle femministe più accese e accanite – delle cui battaglie abbiamo beneficiato tutte noi -, potrei riflettere sul modo di lottare di Grazia. La sua battaglia l’ha fatta con la penna, ha spedito lettere a tutti, scrittori ed editori, politici e governanti, intellettuali e artisti; anche quando pareva impossibile che fosse ascoltata, lei, una giovane fanciulla che aveva frequentato solo la quarta elementare, non si è mai arresa.
Lo scienziato Giampiero Abbate sostiene che il mondo è fatto di dualità e creare il Bene in contrapposizione al Male, crea anche il Male, per cui fare una marcia sulla pace genera la guerra e, così per esteso, creare un Movimento Femminista, potrebbe intensificare il conflitto di genere. La Deledda ha osservato, guardato, visto e descritto la grandezza della donna sarda, il coraggio, il carattere indomito e selvaggio, forse pensando a se stessa, ma ha anche creato personaggi maschili amabili come Efis - uno dei protagonisti del Romanzo Canne al Vento. Poi si è trovata un compagno di vita - quel Palmiro Malesani che l’ha condotta nella capitale - , e ha lasciato che la aiutasse a realizzare il suo sogno.
Per questo è stata criticata, nientedimeno che dal grande Pirandello in persona che si è premurato di scrivere un’opera caricaturale su suo marito. Non poteva preoccuparsi dei problemi familiari generati dalla follia di sua moglie - quella Antonietta Portulano, ''affetta da delirio paranoide'', che la rendeva ''pericolosa per sé e per gli altri''? Perché mettere in ridicolo la vita di una collega e amica? Eppure Pirandello era ed è ancora grande, ne ho apprezzato gli scritti già nella mia adolescenza. Del resto come scrive sempre Simone «La magia femminile è stata profondamente addomesticata nella famiglia patriarcale» e, se una donna prova a liberarsi, chi è affetto da questa programmazione ne viene infastidito.
E sostiene, altresì, che «L’ideale dell’uomo medio occidentale è una donna che subisca liberamente la sua egemonia, che non accetti le sue idee senza discuterle, ma finisca per accedere alle sue ragioni, che gli resista con intelligenza per farsi convincere alla fine». E se una donna si allea con suo marito che segue la sua missione perché ne riconosce la grandezza, come si permette?
A Grazia, forse, questo atteggiamento è dispiaciuto, ma è stata in grado di guardare avanti passando oltre. Rossana Dedola, autrice della biografia, Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere (Avagliano, 2016), la rappresenta come una scrittrice dal respiro europeo, capace di coltivare contatti culturali con personaggi come Federigo Tozzi, Marino Moretti, Matilde Serao, Eleonora Duse, Sibilla Aleiramo, lo stesso Pirandello, ecc., ma anche con personalità di spicco internazionale. La studiosa sassarese afferma che la Deledda ebbe successo anche perché suo marito gli fece quasi da agente letterario. Quando Virginia Wolf parla di Jane Austen ed Emily Brontë, sostiene che ci volle molto coraggio per non farsi schiacciare dall’atteggiamento patriarcale, dalle critiche che venivano da parte del mondo maschile. Pur tuttavia, la Dedola fa notare che queste donne, così come Grazia Deledda, seppur oppresse, «non manifestarono mai un sentimento di acrimonia» nei confronti del mondo maschile ma anziché farsi limitare dalla rabbia trasformarono quell’emozione negativa «in letteratura, in grandi romanzi, in amore per la vita, in slancio verso tutto ciò che di bello e di positivo la letteratura può raccontare».
Tutta la vita di Grazia è stata davvero un caso straordinario di emancipazione femminile! E poiché, per dirla sempre con la Beauvoir «Donna non si nasce, lo si diventa», Grazia ha acquisito una tale consapevolezza di sé da poter sostenere «Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino».
È questo il motivo, prettamente personale, per cui la Deledda ha dedicato sessant’anni della sua vita alla scrittura? La risposta è anche in un documentario pubblicato in calce all’articolo: «Io non sogno la Gloria per sentimenti di vanità e di egoismo, ma perché amo immensamente il mio paese. Sogno un giorno di poter diradare con il mio coraggio le foschie ombrose dei nostri boschi, narrare intera la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri, così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza… Avrò tra poco vent’anni, a trenta voglio avere raggiunto il mio scopo, quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda. Sono piccina piccina… ma sono ardita e coraggiosa come un gigante. L’essenziale è di scuotere tutti i sardi, tutta l’Isola». E lei è riuscita a scuoterli, nel bene e nel male, ha fatto conoscere il suo popolo a tutto il mondo, ha piantato un seme nei cuori dei suoi lettori e lo ha coltivato in ogni istante.
Mentre Grazia viaggiava nel treno del Nobel – come afferma Neria De Giovanni - «Fuori la affascinano le fattorie dalle grandi finestre scintillanti, i laghi gelati, il nero degli abeti e delle betulle. Quelle distese quasi disabitate, le fattorie isolate, le ricordano le campagne della sua Sardegna… Non si meraviglia della neve perché dice che nella sua Nuoro le notti invernali sono gelate».
Grazia conosceva bene i cicli della natura, li osservava e se ne stupiva, amava le piante, gli alberi, le pietre, i silenzi del vento, la magia della montagna incantata che guardava dal suo cortile, lo spumeggiare delle onde negli scogli del suo mare, la trasparenza delle acque della sua Isola. Sapeva bene, per dirla con Alfredo Cattabiani (Il Lunario – Oscar Mondadori) che «La neve costringe il seme di grano a svilupparsi sotto terra, mentre la pioggia può alla lunga provocare l’uscita prematura del germoglio che non soltanto sarebbe privo d’un robusto sistema di radici capaci di sostenerlo durante la crescita e nei periodi aridi, ma rischierebbe anche di bruciare per le gelate». Grazia è stata questo seme, piantato in un terreno gelato, carico di radici profonde e abbarbicate alla propria terra e germogliato per tutti noi Sardi, contribuendo a una grande trasformazione che ancora si sta compiendo. Secondo Cattabiani, dicembre, il dodicesimo mese, è quello che «conclude, è segno di compimento, come dimostra il sole attraversando dodici segni in un anno». Il Dodici, «Chiamato ‘numero di Grazia e perfezione’, raffigura il perfetto equilibrio».
Mentre l’Anno si conclude, le notti diventano più lunghe e le ore di luce diminuiscono, allorché l’oscurità sembra regnare sovrana, nel momento di maggior trionfo, la Luce ritorna lentamente a rischiarare le nebbie dell’Inverno. E questo avviene dopo il 21 dicembre, giorno del solstizio invernale, Yule nel calendario celtico, per arrivare a Natale, che rappresenta la versione cristiana della Rinascita del Sole. Ecco perché a Grazia voglio dedicare il Natale: lei fa in modo che il ciclo si compia, «la morte del Vecchio Sole e la nascita del Sole Bambino, la sconfitta del Dio Agrifoglio, Re dell'Anno Calante, ad opera del Dio Quercia, Re dell'Anno Crescente».
Se la dovessi raffigurare come una pianta, infatti, sarebbe una piccola quercia, una sughera del bosco, con un grande capello pieno zeppo di foglie verdi e coriacee, con una moltitudine di ghiande ovali brune, il tronco ricoperto di un mantello di sughero rossastro, sanguigno come la sua passione.