DAIMON -L’ULTIMO CANTO DI JOHN
KEATS
INTERPRETATO DA GIANNI DE FEO
“Vediamo il mondo una volta sola, da bambini. Il resto è
memoria”.
(Louise Glück)
Dopo il grande successo ottenuto a febbraio, ritorna al Teatro
Lo Spazio di Roma lo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
di Paolo Vanacore, interpretato e diretto da Gianni De Feo. Lo spettacolo
vede la partecipazione amichevole in voce di Leo Gullotta, mentre gli arrangiamenti musicali sono
di Alessandro Panatteri e la scenografia – realizzata attraverso la
proiezione di artistici dipinti – è stata realizzata da Roberto Rinaldi.
Come afferma il regista Gianni De Feo: «Quest’opera nasce
dal desiderio più intimo di andare oltre la semplice rappresentazione di un
racconto teatrale. Si parla del canto
della Poesia, della forza degli incontri alchemici, magici, quelli che illuminano
il nostro percorso terreno per svelarci qualcosa di apparentemente inaspettato,
ma che da tempo aspetta di essere svelato. E poi si parla di Anima, della
nostra essenza più semplice, più vera, più pura».
Si tratta di uno spettacolo recitato tutto d’un fiato
perché il tempo vola seguendo il ritmo serrato della rappresentazione. De Feo
conduce lo spettatore in quella dimensione senza luogo e senza tempo che blocca
l’attimo in un istante d’eternità. Nonostante avessi già visto la rappresentazione a febbraio, stasera ho di nuovo seguito lo spettacolo con curiosità guidata dal mistero del profondissimi testo, dalle musiche coivolgenti, dalle scenografie stranianti, ma soprattutto dalla bravura di Gianni. Con la sua presenza scenica, con quel
talento camaleontico a interpretare i più svariati personaggi, con la sua
mimica straordinaria appresa negli anni parigini da Lindsay Kemp, grazie alla
sua voce suadente e gradevole, al suo corpo abituato ad assumere le pose più strane,
a danzare seguendo il ritmo della musica, al suo canto innalzato in teatro sui
brani del miglior Battiato, il testo di Vanacore gli è stato cucito addosso in
modo sublime, seguendo una regia attenta e poetica, stimolato da una
scenografia essenziale, ma significativa, da una musica selezionata ad arte, dalla
proiezione sullo schermo di immagini stranianti e coloratissime, che hanno
consentito di cogliere ogni sfumatura del testo, intelligente, poetico, ben
strutturato, capace di stregare il pubblico, ormai disabituato a performance di
alta qualità artistica. c'era lui solo in scena, ma i registri interpretativi di De Feo sono stati così differenti, che ogni volta che si spostava sul palcoscenico, restava la memoria di quello che aveva interpretato prima, cosicchè si aveva la sensazione di vedere contemporaneamente tanti varianti di De Feo che coesistevano tutte insieme, un effetto di coinvolgimento assoluto. Gianni è entrato nel testo, nell'anima del personaggio, in ogni suo respiro e ci ha fatto guardare dentro ogni suo mistero.
Sempre De Feo, regista e interprete dell’opera ci spiega: «È
uno spettacolo dalla forma circolare: tutto nasce per tornare indietro e
ricominciare. Infatti lo spettacolo si chiude con una danza dei dervisci
roteanti. Una riflessione sulla necessità di superare i limiti che ci tengono
legati a condizionamenti dettati da falsi pregiudizi. Un percorso all’interno
del nostro subconscio per ritrovare la fonte, l’origine e la connessione con il
Tutto. Riconoscere il nostro Daimon, la guida che ci accompagna e illumina il
nostro cammino. Sul filo sottile di quest’atmosfera ho voluto inserire due
brani di Franco Battiato e uno di Giuni Russo che canto sugli arrangiamenti del
Maestro Alessandro Panatteri. In ultimo, le immagini pittoriche di Roberto
Rinaldi proiettate in alternanza durante tutta la rappresentazione, battono la
cadenza
ritmata delle parole».
Dopo le quattro giornate sold out di febbraio, il pubblico è venuto numeroso ed è stato attentissimo, pronto ad immergersi nella scena con
fiducia e simpatia. in sala c'era un silenzio impalpabile ogni tanto interrotto da qualce colpo di tosse che sembrava rovinare quell'intensità di cui era pervaso tutto il palcoscenico.
Cosa sia il Daimon ce lo spiega Platone nella
Repubblica: è quel genio tutelare, quell’energia universale, dal greco δαίμων,
‘distributore di destini’, che ogni anima, prima ancora di nascere, sceglie deliberatamente.
I romani hanno tradotto questo termine con la parola demone,
che non assume una valenza negativa, ma semplicemente rappresenta la sua natura
benefica e malefica insieme.
Ad ogni anima corrisponde il suo unico e irripetibile daimon
che ne accompagna il cammino dell’esistenza, le ricorda il destino scelto,
dimenticato però all’atto della nascita.
Per la mitologia greca si tratta di un messaggero
divino, una specie di intermediario tra uomini e déi.
Secondo Gustav Jung rappresenta quella forza
intelligente presente nell’inconscio, inspiegabile per la mente, una sorta di
divinità interiore che tormenta l’anima finché non viene ascoltata e liberata.
Il protagonista di quest’opera Teatrale è James
Hillman, studioso delle strutture archetipiche del mito, che nel suo libro
più famoso, “Il codice dell’anima”, definisce il daimon come la
nostra vocazione interiore. Racconta la storia di diversi personaggi celebri e
dimostra che le loro scelte decisive sono state dettate dal proprio daimon.
Nella scena, l’anima bambina del protagonista,
consapevole di essere di passaggio in questa dimensione, in un Hotel pieno di
viaggiatori con una splendida vista sull’oceano, si ricorda dei compagni di
gioco ed in particolare di un bambino con cui ha giocato nella sabbia. In lui riconosce
quel “compagno segreto” a cui non può sfuggire e che gli dona una trottola, una
specie di pendolino che funge da bussola: proprio per individuare la giusta
direzione che l’anima deve seguire per riuscire a realizzare il suo destino.
Il protagonista, Hillman, ha una vocazione che lo spinge
al viaggio, un viaggio da cui ritorna con la sensazione di aver dimenticato
qualcosa.
Forse ha dimenticato un incontro, gli occhi del bambino
in cui ha visto il suo “compagno segreto” sono gli stessi che poi riincontra a
Roma tra le foglie autunnali di un Platano. In Oriente il Platano è simbolo di
Dio. Le sue foglie indicano al filosofo la direzione giusta: quella del
cimitero acattolico e delle tombe dei poeti inglesi John Keats e
Percy Bysshe Shelley. C’è un’immagine dei due poeti che vive in lui e in cui
riconosce la sua guida spirituale.
Hillman come nella poesia di Keats compie lo sforzo di comprendere
sé stesso per giungere alla sua giusta collocazione nel mondo.
Musica, poesia, canti, i versi di Keats evocati dalla
voce di Leo Gullotta, le canzoni di Franco Battiato e di Giuni Russo, anch’essi
ormai passati nell’altra dimensione. Grazie agli arrangiamenti di Alessandro
Panatteri, le canzoni sono cantate dal vivo da Gianni De Feo nella
sospensione dell’oceano dei ricordi, in un percorso intimo del viaggio della
propria anima. Nell’atto di abbandonare il proprio ego, il protagonista ruota
in modo ripetitivo come un derviscio, imitando l’azione simbolica dei pianeti
nel sistema solare in orbita attorno al sole. E il pubblico deve per
forza applaudire la poesia di questa danza, nel silenzio della meditazione.
Tra reale e sovrannaturale, Hillman riprende il concetto
di Keats della poesia intesa come “fare anima”, una tensione verso la
comprensione di sé stessi per trovare la giusta collocazione nel mondo.
La scenografia essenziale con quei «pochi elementi che
sembrano emergere dalla sabbia o sospesi tra le onde del mare,
quell’oceano infinito che bagna Atlantic City da cui riemergono i primi ricordi
d’infanzia. Fanno da sfondo numerose videoinstallazioni: opere astratte dai
colori brillanti e contrastanti che verranno proiettate sullo
schermo, realizzate dall’artista Roberto Rinaldi».
James Hillman, dopo anni di studi e approfondimenti
psicoanalitici, ha deciso di nutrirsi soprattutto di bellezza, sposando
profondamente per le sue teorie il senso dei versi di John Keats: «Bellezza
è verità, verità è bellezza, questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta».
Studia presso l’MTM (mimo-teatro-movimento) sulla
direzione di Lydia Biondi.
Successivamente, a Parigi, approfondisce le tecniche del
movimento e del mimo con Jacques Lecoq, studia canto alla Schola Cantorum
e segue un seminario sul teatro di Peter Brook con Jean Paul Denizon.
In teatro è diretto, tra gli altri, da Mario Ricci,
Sylvano Bussotti, Werner Schroeter, Roberto De Simone, Mario Scaccia, Lindsay
Kemp, Tato Russo, Maurizio Scaparro, Dacia Maraini, Antonio Salines.
Tra gli altri ruoli principali interpreta Giacomo
Leopardi, Marcel Proust, Jean Cocteau, Alfred Jarry, Il Marchese De Sade,
Amedeo Modigliani, Oscar Wilde.
È ideatore, interprete e regista di diversi spettacoli di
teatro-canzone con musicisti dal vivo. Le canzoni sono generalmente cantate nella
lingua originale: italiano, francese, spagnolo, tedesco e inglese.
Periodicamente dirige corsi teatrali e laboratori
incentrati sul movimento e la gestualità, l’improvvisazione creativa,
l’espressione corporea, tecniche vocali e letture di testi.
Dal 2012 insegna recitazione e movimento scenico presso
il LIM di Roma, Accademia di Musical diretta da Cesare Vangeli
(2018).
Paolo Vanacore, autore e regista napoletano laureato in Storia del Teatro, vive a Roma. Dopo il «Grande Grabski» dello scorso anno, torna con un testo teatrale basato sulla psicoanalisi: dalla sua penna nasce Daimon, l’ultimo canto di John Keats. Un lavoro completamente diverso dal precedente; più profondo, più colto e intellettualmente più raffinato: meglio identificabile come uno studio sbocciato da una ferita dell’anima. Perché di anima si tratta: anima nell’essenza, anima nella ricerca e anima in quella fine che mai sarà.
Biglietti: intero:15 euro – ridotto: 12
euro
(bar aperto per aperitivo dalle 20.00)
informazioni e prenotazioni
339.775.9351 / 06 77204149
Teatro
Lo Spazio
Via Locri, 42Roma, 00182 Italia+ Google Maps