Quando sono giunta a Roma ho visto pini alti alti ed eleganti, mentre a Cagliari erano piccoli e protesi nella direzione del vento. Ho cominciato ad ammirare le schiere di Pinus pinea che mi sfilavano davanti nelle passeggiate al Parco dell'Appio Claudio, nei viali e nelle strade di Roma, una lunga fila di aristocratiche signore, sinuose e deliziose nelle loro chiome a ombrello. Hanno accompagnato tutte le mie escursioni a piedi, i miei percorsi in autobus e pure i miei viaggi in macchina, come se mi indicassero il cammino da percorrere, pronte a proteggere il mio passaggio. Guardando le folte chiome circolari e i loro rami graziosi che sembravano danzare verso il cielo, spesso mi perdevo e mi facevo guidare da quelle figure di dervisci danzanti dimenticando la meta iniziale del viaggio. Poi gli alberi hanno cominciato a parlarmi tutti, non solo quelli dei parchi urbani o delle strade trafficate, ma soprattutto quelli selvaggi dei boschi più intricati e meno raggiungibili, quelli che fanno compagnia alle case, ai campi coltivati, alle proprietà curate come giardini.
Una delle cose più irresistibili è il loro risveglio primaverile, allorché si vestono di fiori e odori raffinati. Non amo, invece, vederli tagliare, anche se sono malati: sono convinta che percepiscono il dolore del taglio come se subissero una ferita. Quando sono trasformati in oggetti, conservano la memoria del legno di origine: se usate un mestolo di olivo, potete sentire il suo lamento, ma anche la sua armonia interiore; esso aggiunge sapore al cibo perché partecipa della miscela dei sapori.
Figuratevi come mi sono incuriosita quando mi hanno parlato di Antimo Palumbo, lo storico degli alberi. Mi è sembrata già interessante l'etimologia del suo nome, Ἄνθιμος (Anthimos)”, derivante dal greco ἄνθος (anthos), che significa “fiore che sboccia”. C'era una vecchia canzone di Gianni Rodari cantata da Sergio Endrigo intitolata Ci vuole un Fiore secondo la quale dal fiore è possibile creare tutto, albero compreso. Ho intervistato Palumbo dopo una visita guidata a Villa Doria Pamphilj, sotto un ciliegio giapponese in fioritura.
Quando hai incominciato a occuparti di alberi?
«Me ne sono occupato da sempre: sono cresciuto in un luogo ricco di alberi e terra, uno spazio naturale e selvaggio, accompagnato dai miei amici alberi ma anche da altre piante. Diversi anni fa poi ho fondato l'Associazione ‘Adea amici degli Alberi', di certo sono nato con questa missione, ma me ne sono reso conto solo tardi. È successo durante una visita guidata al Giardino del Laghetto di Villa Borghese: mentre la guida elencava una trentina di alberi, io, improvvisamente, mi sono reso conto che molti non li conoscevo. Ho avuto una sorta di illuminazione e da quel momento mi dedico agli alberi con passione totale...».
In che cosa consiste la professione di storico degli alberi?
«Un tempo non avrebbe avuto senso, perché nelle società antiche tutti conoscevano gli alberi, il loro potere, le loro peculiarità, ma nella nostra società tecnocratica, abbiamo smarrito questa sapienza primordiale. Lo storico degli alberi si pone dunque tra il mondo vegetale e l'uomo moderno cercando di aiutarlo a recuperare questa sapienza, la capacità di percepire le Piante. Traccia la storia di ogni albero, soprattutto di quelli più straordinari, per bellezza o per età, ne approfondisce la cultura, ne recupera i racconti mitici e ne svela ogni potenzialità. Si pone, inoltre, il compito di studiare e far conoscere le biografie di quei botanici che hanno contribuito a svelare il mistero delle piante, che le hanno catalogate, comprese e appassionatamente amate. Recuperare la connessione con gli alberi, l'armonia, l'equilibrio, la magia del mondo vegetale è un modo per vestire la scienza botanica del suo abito umanistico, storico e letterario al fine di valorizzare la cultura degli alberi».
Qual è il tuo albero preferito e perché? Ha uno spirito femminile o maschile?
«Io amo particolarmente il fico, il Ficus carica. Ci sono vari tipi di fico, sotto il Ficus religiosa, per esempio, Buddha ha ricevuto l'Illuminazione. I Ficus macrophilla di Piazza Marina a Palermo sono spettacolari, ma anche quelli dell’Orto botanico di Cagliari sono molto suggestivi. Il fico è un albero legato alla città di Roma, la leggenda vuole che sotto un fico siano stati trovati in una cesta di vimini Romolo e Remo. È un albero che mi rappresenta perché è molto ramificato: ho sempre pensato che per dare qualcosa al mondo devi essere ‘sporco’, ovvero interdisciplinare, oggi siamo troppo specializzati, mentre è opportuno avere interessi di vario genere, cioè ramificarsi... Il fico ha senza dubbio uno spirito maschile. Basti pensare al latte appiccicoso che scaturisce dai rami tagliati, anche se il suo falso frutto, il siconio - che contiene al proprio interno numerosi piccoli frutti, gli acheni -, è legato nella tradizione popolare all'attributo genitale femminile...».
Come ti senti quando ti confronti con un patriarca? Che emozioni ti suscita? Che potere gli attribuisci?
«Lo definirei un albero monumentale piuttosto che un patriarca, perché in realtà potrebbe essere una matriarca: quando ti metti in contatto con un albero che ha trecento anni sai che ti stai confrontando con un essere vegetale intelligente, con la sua saggezza. Noi non conosciamo modi oggettivi per comunicare con questi alberi, non abbiamo strumenti per rielaborare quanto ci trasmettono, eppure, con certi alberi, siamo investiti da una grande emozione. A Roma ci sono alberi centenari - ma non millenari come gli olivi di Luras in Sardegna o come certe sequoie americane -, che hanno vissuto cose che noi non abbiamo potuto vedere. Un albero del '500 ha abitato una realtà storica che possiamo leggere solo sui libri, o negli ‘occhi’ di quell'albero...».
Gli esseri umani spesso emanano energie negative, di conflitto, di guerra, come funziona tra gli alberi? Ci sono quelli più calmi e quelli più diabolici? Facci degli esempi.
«Ci sono alcune regole da seguire quando si iniziano a studiare le piante, la prima è quella di 'osservare', la seconda quella di 'sapere di non sapere', la terza è quella di essere in grado di 'sopportare una sana frustrazione' - perché capita spesso che quello che hai studiato e creduto di sapere è diverso da come tu pensavi -. Gli alberi poi 'non vanno mai umanizzati' - perché essi sono qualcosa di diverso dall'uomo. Quello che sappiamo degli alberi è sempre relativo, l'albero è un mistero... Eppure anche tra gli alberi ci sono quelli che trasmettono emozioni negative, magari danno la sensazione di essere circondati da ‘spiritelli burloni’ Per comprendere a fondo le loro energie bisognerebbe andare a trovarli di notte. Ci sono degli alberi saggi come il fico e la quercia, la Quercia delle Streghe a Villa Borghese, per esempio, è davvero un albero magico, ma ci sono anche alberi che incutono timore. A Roma abbiamo gli stupendi platani monumentali di Villa Borghese, che sono particolarmente inquietanti, antichi, grandi, alcuni scavati all'interno con una nera scorza...
La forza degli alberi emerge dalle loro radici, che costituiscono un collegamento col mondo vegetale sotterraneo. Essi si connettono, realizzano relazioni simbiotiche e stabiliscono, attraverso l'apparato radicale, veri e propri accordi. L'albero è davvero un mistero, ognuno sente quello che vuole, è lo stimolo per mettersi in comunicazione con il proprio sé superiore. La differenza fondamentale tra una pianta e un albero è che la pianta non possiede l'accrescimento secondario, non produce legno. Una pianta annuale per esempio risolve tutto, ovvero si riproduce e giunge a seme, in un anno, una pianta legnosa invece lega il suo esistere a una scelta di lunga durata e di essere manifesta: quindi un albero è più vicino al nostro essere umani...».
Che suono hanno le piante? Riesci a sentirne la musica e le sue parole mute?
«Le piante comunicano attraverso le radici, se vogliamo sentirle dobbiamo andare a trovarle quando c'è silenzio, la sera, quando in giro non c'è nessuno. Il pioppo per esempio, il Populus tremula, è un albero che parla grazie al movimento delle sue foglie... Forse un giorno troveremo il modo di decodificare il loro linguaggio muto...».
Che differenza c'è tra un albero nato in un giardino monumentale e una pianta sbocciata in una foresta selvaggia?
«Le piante possono nascere da seme o da talea, è molto importante il modo attraverso cui sono nate. Quelle che compriamo al vivaio spesso sono dei cloni, non possiedono una loro personalità, mentre le piante spontanee sono più evolute, hanno maggiore capacità di adattamento. Le ‘erbacce’, per esempio, sono flessibili e si adattano più facilmente alle situazioni. Una pianta selvaggia entra in competizione con tutto, è più capace di affrontare la vita...».
Dove sono gli occhi di un albero? Da quale punto di vista ci guarda?
«Gli ‘occhi’ possono essere dappertutto, sono nel tronco se vogliamo vederli lì, ma la parte più intelligente di un albero si trova nelle radici. Come tutti gli esseri viventi, anche le piante hanno i loro sistemi di circolazione e trasporto interni, in particolare quello dell’acqua e dei sali in essa disciolti avviene attraverso lo 'xilema' che trasporta 'linfa grezza', mentre le sostanze nutrienti vengono condotte attraverso il 'floema' che trasporta 'linfa elaborata' per nutrire l'albero. Mi piace pensare che da qualche parte nel corpo di un albero come essenza ci sia un cuore che si muove e pure degli occhi, forse nel mondo sotterraneo delle radici...».
Insomma Antimo ci suggerisce di non umanizzare le piante, anche se esse sono sempre state protagoniste di storie, leggende e poesie. Ne Il canto degli Alberi di Hermann Hesse il tema unificante del libro è proprio quello degli alberi, simbolo di eterna rinascita e di pienezza della Natura. Gli scrittori ne sono sempre stati affascinati e nella loro presenza silenziosa e saggia hanno finito per scambiarli per esseri viventi e invocarli come spiriti di protezione e aiutanti magici. E io che scrivo fiabe non faccio di certo eccezione.